La Nuova Sardegna

A tutto “sprawl” L’altra Sassari sparsa nel verde

di Giovanni Bua
A tutto “sprawl” L’altra Sassari sparsa nel verde

Il proliferare di piccole case diventata ingovernabile Prima gli orti e gli oliveti, adesso le villette “fai da te”

13 maggio 2017
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LO SPRAWL. Si tratta della declinazione tutta sassarese dello sprawl, la dispersione urbana su cui da quasi un secolo si esercitano urbanisti e sociologi. Raccontando le enormi e disordinate maniere in cui le megalopoli americane come Los Angeles e Washington, ma anche le medie e grandi europee come Barcellona, Milano, Torino e Venezia, si sviluppano mangiando pezzo a pezzo la campagna circostante. E creano città “sparpagliate”, slegate, asociali, inutili e, negli anni, sempre più insostenibili.

SPARPAGLIATI. Casi lontani e diversi, che richiamano però inesorabili alla mente quei quindicimila sassaresi che nel corso dei decenni si sono ostinatamente insediati in cinquemila ettari di ciò che resta dell’agro cittadino. Disseminati in case «a tale distanza tra loro – recita l’Istat – da non poter costituire nemmeno un embrione di nucleo abitato», occupate in gran parte da massimo due persone, di età mediamente avanzata. Vere e proprie monadi, completamente autoreferenziali, che fuori dal loro cancello devono fare a meno di ogni opera di urbanizzazione primaria o secondaria, di strade, servizi, fognature, scuole, uffici, trasporti pubblici, centri di aggregazione. Ma che, nonostante tutto, lentamente e inesorabilmente continuano ad aumentare.

L’INVASIONE. Un’invasione antica quanto Sassari in realtà, che sull’interscambio tra il centro e la sua “cintura” di orti e frutteti è nata e proliferata. Che però cambia faccia e passo negli anni ’60 e ’70, quando il cordone ombelicale con la produzione agricola si recide, per lasciar spazio al terziario e alla nascente industria. E i migliaia di ettari olivettati che circondano l’area urbana diventano luogo di svago prima, di emancipazione sociale e residenza definitiva poi.

LA BOMBA. Una mutazione profonda che la politica locale, e le norme urbanistiche, preferiscono tenere, per intuibili motivi, fuori dai radar, nonostante sia da quasi un secolo ben codificata, e temuta. «Il concetto di dispersione urbana – spiega la sociologa Antonietta Mazzette – nasce negli anni ’30, in America. Legato a un modello di sviluppo orizzontale, a bassa densità di popolazione, e caratterizzata dall’elevato consumo di terreno. Ha specificità diverse negli Stati Uniti, dove le città nascono e si sviluppano con i centri di produzione, e nelle metropoli europee e italiane, dove invece le industrie arrivano dopo le città. E trova una sua peculiare applicazione anche a Sassari, dove il fenomeno è significativo e particolare. E rappresenta una vera e propria bomba pronta a esplodere».

SOLI. Per meglio capire i timori della direttrice del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Sassari basta scorrere alcuni dei dati elaborati dal “suo” Centro studi urbani: le 15mila persone che risiedono nelle “case sparse” hanno per la gran parte tra 40 e 64 anni, e ognuna delle circa diecimila unità immobiliari che occupano lotti mediamente di mezz’ettaro è abitata da uno (24%) o due componenti (25%). Coppie, spesso sole, che si avvicinano a grandi falcate all’età matura insomma. E, dopo aver cullato 30 o 40 anni fa il sogno di andare a “vivere in campagna” si ritrovano a fare i conti con la totale assenza di servizi prossimi. E la sempre maggiore difficoltà a raggiungere quelli cittadini.

IL RUOLO. Situazione che tratteggia Giuseppe Porcellana, tra i “fondatori” del quartiere di Luna e Sole (ha progettato lo Sporting club le Querce, oltre che svariate decine di ville a Monte Bianchinu) e ora presidente del Comitato Ambiente Sassari, nato proprio per tutelare il territorio «periurbano»: «La maggior parte dell’edificato urbano diffuso – spiega – è priva di acquedotto e fognature, la viabilità segue l’antica rete rurale ed è ai limiti della funzionalità. La maggior parte della vasta zona è priva di scuole, asili, uffici. L’approvvigionamento idrico avviene con pozzi trivellati che sfruttano le falde del sottosuolo e lo smaltimento dei reflui avviene mediante fosse settiche, la cui diffusione ha determinato in alcune aree l’ inquinamento delle falde». Ma attenzione, avvisa l’ambientalista: «Gli abitanti dell’agro urbano hanno svolto e svolgono un ruolo di tutela dell’agro, che mantengono compatto. La strage di 1000 ettari di ulivi non è avvenuta dentro quei lotti, ma nell’area industriale o nell’espansione della città. Gli strumenti urbanistici nei decenni hanno rinunciato a disciplinare questa area. E non si è mai riusciti a mettere in piedi i cosiddetti piani di risanamento, da approntare per singole zone. Promessi ma già finiti nel nulla».

RISANARE. Risanamento che tutti considerano necessario. Anche se diverse sono le ricette. «Il primo passo è prendere atto dell’esistente. E riqualificarlo», spiega Salvatore Orani architetto e dirigente dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, del Nord Sardegna. «La tendenza di non consumare nuovo suolo è condivisa – sottolinea Orani – ma permettere un ampliamento controllato, che risponda a rigidi vincoli di efficientamento energetico, e dare il via libera al frazionamento delle unità abitative rendendole disponibili a più di un nucleo familiare sono modi per rispettare l’agro, non per distruggerlo. Questo, unito a piani di risanamento per zone e a un rilancio produttivo dei terreni già occupati, può essere un primo passo per trasformare un problema in una risorsa».

LA SCELTA. «Pensare – spiega Antonietta Mazzette –, di portare in oltre diecimila abitazioni urbanizzazione primaria e secondaria è sbagliato, antieconomico, irrealizzabile. Si possono stimolare conversioni alla sostenibilità energetica, al riuso dell’acqua, allo smaltimento di ultima generazione. Stimolare una ripresa della produzione, magari associata, nei terreni occupati. Ma la realtà è che bisogna per prima cosa bloccare del tutto le costruzioni nell’area periurbana, e prepararsi a gestire un’emergenza sociale che tra una decina d’anni sarà inevitabile. Perché chi può rientrare lo sta già facendo, ma molti rimarranno inchiodati nelle loro case lontane, senza avere più il modo di raggiungere i servizi di cui hanno bisogno. La verità è che la città sparsa è costosa, dannosa, inutile. Nel mondo la tendenza consolidata è far rientrare la popolazione nella cinta urbana. E questo, insieme alla riattivazione di un corretto rapporto produttivo con la nostra campagna e la nostra storia, non può che essere il vero obiettivo da porsi».

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