La Nuova Sardegna

"I farmaci antitumorali? Troppo costosi e spesso inutili"

Mauro Lissia
Pazienti in chemioterapia
Pazienti in chemioterapia

Il ricercatore dell'Università di Cagliari Ezio Laconi segnala un articolo pubblicato dall'autorevole British Medical Journal e mette in guardia dall'uso indiscriminato di prodotti che servono ad allungare la vita solo di pochi mesi

12 marzo 2017
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CAGLIARI. In un articolo pubblicato qualche mese fa sulla prestigiosa rivista medica British Medical Journal a firma del celebre ricercatore Peter Wise, si afferma senza mezzi termini che il contributo della chemioterapia ai progressi delle cure contro i tumori appare marginale, nonostante i grandi investimenti che si sono fatti in questo campo negli scorsi decenni.

Secondo uno studio del 2004 citato dal dottor Wise, a fronte di una sopravvivenza media a cinque anni nei malati di tumore passata dal 50 al 70% negli ultimi quarant’anni, i miglioramenti dovuti a chemioterapia sono stati molto scarsi. I dati scientifici dicono che la situazione non è cambiata nel corso dell'ultimo decennio: la gran parte dei nuovi farmaci contro i tumori introdotti negli Stati Uniti e in Europa tra il 2002 e il 2014 - che sono diverse decine e hanno costi altissimi - aumentano la sopravvivenza media dei pazienti di uno-due mesi. Considerato che molti tumori si sviluppano nell'arco di decenni, l'effetto di queste terapie appare davvero minimo, al punto da mettere in discussione l’opportunità stessa di utilizzarli quando non c’è alcuna speranza di guarigione.

Abbiamo chiesto a Ezio Laconi, docente di Patologia e Fisiopatologia al dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Cagliari, prestigioso ricercatore nel campo dell’oncologia, di spiegarci l’importanza di questo lavoro e di parlarci delle prospettive della ricerca scientifica nel campo della lotta ai tumori.

«L'importanza dell'articolo del dottor Wise - spiega Laconi - non è legata alla constatazione di un dato di fatto, in parte già noto, sull’efficacia dei farmaci antitumorali. L'aspetto che va sottolineato riguarda l'analisi delle possibili ragioni alla base di questo dato negativo e ancora di più le proposte che il dottor Wise presenta per cambiare una realtà altrimenti destinata a continuare».

Sembra di capire che a dominare la scena, in questo campo delicatissimo, siano come sempre le case farmaceutiche.

«Sì, l'analisi parte da una constatazione che l'autore considera basilare: da qualche decennio sono le grosse compagnie farmaceutiche a condurre, quasi in esclusiva, gli studi che portano all'introduzione di nuovi farmaci antineoplastici. Le compagnie farmaceutiche sono quotate in borsa e tendono naturalmente a portare avanti le linee di ricerca meno rischiose e a maggior potenziale di profitto. Le potenzialità di vendita del farmaco diventano pertanto un parametro decisivo nelle scelte strategiche di nuovi investimenti. Questo porta a lavorare spesso su farmaci già esistenti, anche se poco attivi, con l'obiettivo di migliorarne anche marginalmente l'efficacia e venderlo meglio. Oppure si sceglie di estendere l'uso di un farmaco da un tipo di tumore a un altro, magari più diffuso, per aumentare le possibilità di vendita per il farmaco stesso. Tutto questo è legittimo e in una certa misura anche corretto. Ma alla lunga rallenta le spinte innovative ad alto rischio nella ricerca. Ed è su quest’aspetto che occorre riflettere».

L’esigenza è dunque di vendere i prodotti. Ma la salute dei pazienti?

«La necessità di vendere ciò che viene prodotto ha portato a un progressivo abbassamento della soglia di efficacia considerata accettabile per un farmaco. Molti farmaci aumentano la sopravvivenza di pochi mesi rispetto a una malattia che ha un decorso molto lungo, al costo di diverse decine di migliaia di euro, costo che si scarica integralmente sul servizio sanitario nazionale».

Pochi mesi di sopravvivenza. Si tratta di capire se vale la pena o no. E’ un argomento estremamente delicato, perché esula dal campo scientifico e riguarda la sensibilità umana. Un mese di vita, per quanto precaria, può essere poco per la scienza ma moltissimo per la famiglia del malato e per il malato stesso.

«Gli studi sono concordi nel ritenere che questo non sia ritenuto accettabile, né da chi lavora all'assistenza dei malati, né dai cittadini, come confermato anche da un'indagine condotta a Cagliari dove il 60 per cento di un vasto campione di medici e infermieri ha ritenuto che valga la pena somministrare il farmaco soltanto se aumenta la sopravvivenza del paziente di almeno un anno. Si tratta di terapie che arrivano a costare centomila euro per ciascun paziente, in una sanità pubblica dove le risorse sono costantemente in calo. Le responsabilità di queste scelte coinvolgono sia i ricercatori che le società professionali, le riviste scientifiche, i medici oncologi, le autorità politiche, le associazioni di cittadini e pazienti, oltre all'industria farmaceutica. Certo, mi rendo conto: è un discorso difficile, ma credo che vada affrontato».

Quali sono i suggerimenti proposti dal dottor Wise?

«Sostiene che i centri di ricerca pubblici, soprattutto le università, dovrebbero evitare di partecipare a studi che porteranno prevedibilmente a risultati di valore limitato in termini di miglioramento terapeutico. Sia le società scientifiche che gli editori delle riviste specializzate dovrebbero evitare l'enfasi eccessiva nei confronti di nuovi farmaci di efficacia limitata e dovrebbero innalzare gli standard di riferimento. Wise propone quindi di aprire un dibattito pubblico che aiuti a stabilire soglie ragionevoli di efficacia. Ma è fondamentale finanziare la ricerca pubblica, non condizionata da interessi immediati, per favorire lo sviluppo di farmaci veramente innovativi e con efficacia più elevata. Come docente universitario, ritengo che le Università debbano assumersi in pieno questo ruolo, che costituisce parte integrante dei suoi compiti istituzionali».

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