La Nuova Sardegna

«Le parole della poesia contro odio e guerra»

di Costantino Cossu
«Le parole della poesia contro odio e guerra»

Franco Loi, da sempre anima del Festival di Seneghe

09 settembre 2014
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Anima da sempre del festival di Seneghe, Franco Loi. Il poeta di "Strolegh" , "Teater", L'angel" e di tante altre raccolte che hanno lasciato una traccia forte nella storia della poesia italiana del Novecento, al "Cabudanne de sos poetas" Loi è legato da un affetto paterno. Lui che ha avuto un padre sardo, cagliaritano di Castedddu, da dieci anni viene nel Montiferru a girare vicoli e piazze per stare in mezzo alla gente, per ascoltare e dire poesia. Nato a Genova nel 1930 e trasferitosi a Milano con la famiglia nel 1937, ha scritto sempre in dialetto: genovese, colornese (di Colorno, in provincia di Parma, era sua madre) ma soprattutto in milanese. Ed è proprio dal dialetto, dalle ragioni di una scelta linguistica ed espressiva, che cominciamo la nostra conversazione con lui.

Il dialetto, forma espressiva delle classi oppresse, realtà etica alternativa alle figure dell’inautentico. L'unico vero è la protesta degli oppressi. C'è anche questo elemento nella sua scelta per il dialetto?

«Sì, c'è anche questo. Ma non solo. Non è stata esclusivamente una scelta di impegno civile o di militanza politica. Nella Divina Commedia, ad un certo punto del canto XXIV del Purgatorio, al poeta stilnovista Bongiunta Orbiciani sembra di riconoscere, nel visitatore accompagnato da Virgilio, l'autore della canzone "Donne che avete intelletto d'amore" e Dante, nel confermare a Orbiciani la sua impressione, dice: "I' mi son un che, quando/ Amor m'ispira, noto, e a quel modo/ ch'ei ditta dentro vo significando". Una volta un operaio che lavorava il ferro in un'officina genovese mi ha detto più o meno la stessa cosa che intendeva Dante: "Io sgobbo tutto il giorno ma sono contento così, perché amo il mio lavoro. Imparo sempre qualcosa del ferro e di me stesso". Alla conoscenza di se stessi e del mondo si arriva solo attraverso l’amore. Lungo questa strada si muove la mia poesia».

Il valore del dialetto, quindi, risiede anche nel suo rapporto con la dimensione irrazionale dell’esistere (il corpo, l'istinto, il sogno)...

«Certo. Il corpo e l'inconscio. Il nostro inconscio è più ricco di noi, ne sa più di noi. La nostra consapevolezza non è vasta come l'inconscio. Non è con la testa che facciamo le poesie. Le poesie sono l'espressione della totalità di noi stessi, del nostro corpo, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri inconsci. A queste dimensioni il dialetto è più vicino».

Da una parte il grido di protesta degli oppressi e dall'altra una meditazione interiore che scava nella dimensione dell'inconscio: questi i due poli della sua poesia?

«Sì, tutti e due i poli sono sempre presenti nei miei versi. In “Strolegh”, ad esempio, in cui, secondo alcuni critici, sarebbe dominante la dimensione dell’impegno politico, in realtà c'è anche altro. In quei versi ho messo i miei ricordi di guerra, dell'infanzia. E' un racconto di emozioni. La dimensione interiore è eterna, non ha tempo: questa è stata la grande rivelazione che ho voluto raccontare in “Strolegh”. Certo, in quegli anni ero mosso da una forte passione sociale. La stessa, in fondo, di oggi. Però questo aspetto non è mai del tutto prevalente nei miei versi, neppure nelle prime raccolte. Io sono vissuto in mezzo agli operai, sono stato comunista, sono entrato nel Pci durante la guerra e ne sono uscito nel 1954 perché ho capito che l'ideologia non poteva darmi la verità della vita. Non si perviene alle leggi universali per via di logica, diceva Albert Einstein, ma per intuizione. E l'intuizione è possibile soltanto nel rapporto amoroso con l'esperienza. L'intuizione nasce nel momento in cui si ama ciò che facciamo. Con la testa, con la ragione si può fare tecnica, ma non si fa creatività, né scientifica né poetica, e nemmeno politica nel senso alto della parola. Nel tempio greco e in quello latino stava scritto "Conosci te stesso". E' il conoscere se stessi ciò che insegnano la poesia, la filosofia e tutte le forme autentiche di sapere La conoscenza di se stessi rende possibile capire gli altri. E' il dialogo che regge le comunità umane. Altrimenti saremmo sempre nemici gli uni agli altri».

La poesia ha qualcosa da dire in un mondo dilaniato dalle guerre e da crescenti disparità sociali?

«Sono contro la guerra. Mi sembra vergognoso che ancora oggi europei e americani continuino a fabbricare armi per fomentare guerre dappertutto. Il conflitto armato non risolve i problemi. E' un assurdo sterminio di vite e di ricchezza. Non troviamo i soldi per aiutare le persone che non hanno da mangiare e li troviamo per fabbricare carri armati e missili. Senza cultura, senza consapevolezza non si distrugge l'abitudine a prevaricare sugli altri attraverso l'orrore della guerra ma anche attraverso l’esclusione dal lavoro, una forma terribile di violenza. Dominio e denaro: questo è il solo orizzonte di ogni potere. E' la strada che conduce a un nuovo Medioevo».

Con il tempo nella sua poesia è cresciuta un’evidente istanza religiosa...

«Sì, ma non nel senso delle religioni istituzionali. Per me essere religiosi significa che più conosco, più ho cultura, più imparo e più mi trovo davanti al mistero insondabile del mondo. Religione significa mettere insieme le cose vicine con quelle lontane, le cose che sappiamo con quelle che non sappiamo. “Pontifex” (pontefice) in origine significava “costruttore di ponti”, colui che unisce sponde (realtà) distanti e opposte. Al contrario di ogni fanatismo, la vera religione fa questo. La poesia fa questo».

Che ricordo le è rimasto dei suoi genitori ?

«Mia madre, emiliana, da ragazza andò a fare la domestica a Genova. Lì conobbe mio padre, ferroviere. Lui aveva perso la mamma a sei anni. Ne aveva otto quando morì anche il papà. Andò a vivere a Genova da un suo fratello, un operaio specializzato che lavorava ai cantieri navali. Mi parlava di Cagliari, mio padre. Io la Sardegna l'ho conosciuta nel primo dopoguerra, quando lavoravo per l'Unità. Ho fatto alcuni reportage dalle zone industriali del Sulcis. Quella di mio padre era per tradizione una famiglia di marinai. Il padre di mio padre era nato a Savona, il nonno di mio padre era di Castellamare di Stabbia. Mi ricordo le lacrime di mia madre quando mio padre perse il lavoro perché Mussolini aveva cancellato le cooperative operaie. Mio padre era un grande uomo. Non mi ha mai né picchiato né sgridato. Mi capiva. Era silenzioso e mite, come tanti sardi».

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