La Nuova Sardegna

“L’oro di Fraus” Detective-story che non tramonta

di Alessandro Marongiu
“L’oro di Fraus” Detective-story che non tramonta

Da oggi con la Nuova il libro di Giulio Angioni L’indagine difficile di un sindaco-investigatore

28 aprile 2017
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«Il tempo era già stato maestro. Del caso Cadraus ormai solo l’emigrante che ritorna per la festa e chiede nuove ne parlava. Ma io no. E la cosa cresceva. Come per un figlio o per un albero, che certe cose maturano t’accorgi ai passaggi dell’età e delle stagioni». Questo passo de “L’oro di Fraus”, l’opera con cui Giulio Angioni debuttò nel romanzo ormai quasi trent’anni fa, pare perfetto per dire in via di metafora, oggi, del romanzo stesso nel suo complesso: perché a rileggerlo nel nostro 2017, “L’oro di Fraus” non soltanto ci permette di confermare tutte le qualità che mostrò all’epoca e nelle successive edizioni (quelle del 1998 e 2001 per Il Maestrale), ma di rintracciarne anche di ulteriori, che aggiungono valore a un valore già grande.

ESORDIO D’AUTORE

Nel 1988, nella prefazione che apriva il libro, pubblicato dagli Editori Riuniti, Giuliano Manacorda scriveva: «Giulio Angioni, antropologo dell’Università di Cagliari, è ora al suo esordio di narratore, ma difficilmente sarebbero rintracciabili in questo romanzo i limiti, o comunque i caratteri, che sogliono essere tipici di un’opera prima, tanto egli appare esperto nell’organizzare la fabula e padrone di un suo linguaggio»; e rincarava, in chiusura, sostenendo che «il pregio principale» risiedeva «in quel groviglio che non s’ha da dipanare, nell’oscuro che continuamente tenta di avvolgere la chiarificazione. È lì che la meticolosa, insistente dosatura degli atteggiamenti, delle riflessioni, delle cause e concause mostra la mano maestra e la maturità narrativa di un esordiente al quale questo termine si addice soltanto per mere ragioni cronologiche». Impossibile non essere d’accordo con il critico romano, qui e anche quando, in un precedente paragrafo, individuava con esattezza l’essenza de “L’oro di Fraus”: che è quella del romanzo giallo che, mantenendo salde le caratteristiche imprescindibili del genere – crimine, indagine, soluzione –, è capace d’essere molto più di questo. Siamo davanti, insomma, a un classico esempio di “giallo problematico”, a un giallo cioè in cui la trama investigativa, pur fondamentale, è pretesto per l’autore per parlar d’altro: dell’animo umano, della società, di politica e così via, a seconda dei casi.

TRADIZIONE GLORIOSA

La tradizione in cui “L’oro di Fraus” si inserisce è lunga e gloriosa: nella prefazione all’edizione del 1998, Sandro Maxia chiamava giustamente in causa Gadda e Dürrenmatt, Graham Green e Borges; e accanto a loro, bisognerà poi citare Leonardo Sciascia, del quale Angioni, nel bellissimo colloquio tra il sindaco-investigatore e il prefetto, sembra riprendere il memorabile scambio di battute tra il commissario Rogas e il Presidente della Corte Suprema Riches de “Il contesto”. Ecco che Angioni parte dalla scomparsa del giovane Benvenuto – che poi si rivelerà una morte, e non accidentale, e che sarà solo la prima di una serie – e ci imbastisce attorno la sua particolare detective story: abbiamo il personaggio che cerca movente e colpevole, che qui ha il volto del sindaco-professore di Fraus soprannominato Puntiglio; i comprimari che l’aiutano, non meno improvvisati di lui nelle vesti d’indagatori, in primis il messo-guardia Carlo Sambamore; una figura ambigua, Miroglio, che si muove tra lecito e illecito e che, non sarà un caso, riappare all’improvviso proprio dal passato del sindaco, a confondere le acque; e abbiamo, ancora, depistaggi, piste sbagliate (Fraus, del resto, in latino significa “frode”), un paese di provincia – nel quale è facile rivenire la Guasila di Angioni – sconvolto dai fatti delittuosi, e tutti gli altri elementi che un appassionato di certa letteratura può a buon conto attendersi. Ma contestualmente a ciò, e fin da subito, non solo Angioni allarga il campo, ma nel campo ci entra con una personalità che, per tornare a Manacorda, è stupefacente per un esordiente qual era lui a fine anni Ottanta. È così che il luogo in cui viene ritrovato il corpo del povero Benvenuto, la Casa dell’Orco, è il luogo che da sempre partorisce miti e leggende della piccola comunità («Dicono pure a Fraus che là dentro sepolti ci sono i giardini di corallo, fiori di sangue, sangue d’innocenti, offerti al Moloch impavido ed eterno. Mia madre invece mi parlava di giardini di cristallo, lacrime fatte fiori, e di telai di fate, che nelle notti di luna silenziose si sentono tessere nei loro telai d’oro. L’oro di Fraus, che se lo trovi si fa sterco»); è così che la scrittura si fa spesso vicina alla poesia con assonanze e rime interne (Zia Mariedda piange: «Non dovevo vederlo questo alla mia età», «L’intero cuore e la metà, gli mangi il verme roditore, a chi ci ha tanto cuore da spegnere i figli di cristiani» ha concluso il marito. E poi, dopo, zia Mariedda m’ha incoraggiato, andandomene: «Già stai facendo bene, figlio santo, Dio ti benedica», «La crosta e la mollica, a tutti quanti», ho replicato»), ed esibisce una maturità già pienamente raggiunta anche grazie all’ironia che l’attraversa («Non mi piacciono i musei. Forse perché ho i piedi piatti»).

RIFLESSIONI SUL PAESAGGIO

E ci sono poi le riflessioni sul paesaggio e le risorse naturali e sul loro sfruttamento; sulla crisi di un Partito comunista chiuso in dinamiche gli alienano elettori e partecipazione popolare; su verità e utopie: gli spunti di interesse, appare evidente, nel romanzo di Giulio Angioni abbondano. Il tempo è stato maestro: e da quasi trent’anni a questa parte, “L’oro di Fraus” non ha mai smesso di crescere.

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