La Nuova Sardegna

«Il fantasma e il seduttore» L’universo di Mannuzzu, la parola in equilibrio sul nulla

di ALESSANDRO CADONI
«Il fantasma e il seduttore» L’universo di Mannuzzu, la parola in equilibrio sul nulla

Esce oggi il saggio di Alessandro Cadoni sul romanziere sassarese Narrativa e impegno civile accomunati da una caparbia ricerca di senso

12 aprile 2017
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ALESSANDRO CADONI. Quando l’urgenza batte, Mannuzzu chiama le cose e i luoghi col loro nome: è una cosa che può aiutarci a far luce nel suo percorso metaforico. Leggo da un’intervista recente, del 2014, a firma di Costantino Cossu, per il quotidiano “il manifesto”: «Nella seconda metà dell’Ottocento Sassari ha saputo superare l’impasse della sua tradizionale economia agraria con l’innesto di modi di produ zione industriali e l’egemonia di nuove alleanze: con la comparsa d’un nuovo ceto dirigente, segnato da quella provenienza e insieme da una forte caratura intellettuale. Una tale laboriosa frittata, cucinata in non pochi anni del diciannovesimo secolo, ha però compor tato la rottura – dolorosa e non inevitabile – di uova molto grosse. A uscire disfatta è stata la città contadina. Molti oliveti sono stati spiantati, e gli orti, tutti, sono stati praticamente cancellati, per far posto ad anonimi quartieri urbani, a squallide borgate – in seguito a qual che seconda casa d’un ipote tico stile mediterraneo («smeral dino»). E venendo ai giorni nostri, o quasi, delle vil lette liberty e delle successive villette déco, edificate nei primi decenni del Novecento dagli estri di una piccola borghesia laboriosa, in viali di antiche periferie, cosa rimane? Ifigli, o i figli dei figli, non poche volte ci hanno fatto passare sopra le ruspe…»

Ecco, c’è qui, in questo tema della perdita dei luoghi (attraverso la loro distruzione: che equivale a un assalto alle radici), un vero e proprio plesso del pensiero di Mannuzzu, ove si instaura un legame tra malinconia – diciamo così, nostalgia personale – e analisi socio-antropologica: un legame che si può rintracciare in simili affermazioni pubbliche e che, in filigrana, sostanzia le prose letterarie. Il ragionamento sulla borghesia in questo senso può essere considerato anche come passo critico verso il proprio côté di appartenenza sociale: una classe colta che, nel compimento delle rovine messe in opera da quelle ruspe, ha fallito il proprio mandato sociale; allo stesso tempo, c’è una critica forte, tutt’altro che in senso passatista-conservatore, ai modelli della globalizzazione che già si intuivano nell’attuazione, forzata da una determinata parte politica, del piano di Rinascita (si ricordi la collaborazione al film di Fiorenzo Serra, “L’ultimo pugno di terra”, 1964).

C’è sempre, pressoché in tutti i romanzi, il lamento elegiaco del narratore che ricorda con nostalgia i tempi in cui, camminando in mezzo ai tigli d’un viale Caprera digradante verso il Golfo dell’Asinara lontano, vicinissimo, invece, appariva il mare, specie nelle giornate terse di maestrale. Un lamento, tra l’altro, che non corre praticamente mai il rischio – se mai ce ne fosse – di cadere nella retorica: sempre corretto, com’è, da un tono mai solenne né querulo. Ecco, ora lo sappiamo: l’elegia letteraria, la perdita di nitore del cielo – o della qualità dell’aria, per dirlo con la formula di un interessante esperimento di militanza narrativa ormai di qualche anno fa – è un fatto politico, legato a una partita che non tocca solo il nord-ovest dell’isola, né l’isola tout court: corrisponde, semmai, all’«offensiva del neocapitalismo». «S’aggiunga – scrive Mannuzzu – che si è perduta la posta giocata, fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del secolo scorso, sulla grande industria petrolchimica: ai margini del golfo dell’Asinara, in una grande spiaggia bianca che s’era chiamata Marinella. Rimangono adesso i reliquati degli stabilimenti – laggiù: quasi dei fantasmi»

Ora, quella globalizzazione ha investito tutta una terra, la Sardegna, senza seccare le radici ma rendendole, di fatto, inerti (è un aggettivo utilizzato dallo stesso Mannuzzu), celebrandone un funerale in vita. Il ritorno obbligato è al saggio del 1998, fondamentale per ricostruire criticamente l’itinerario intellettuale dell’autore, “Finis Sardiniae (o la patria possibile)”. Un saggio che si apre e si chiude con un’immagine potente: quella di una serie di vagoni merci, istoriati di simboli inquietanti, fermi, per anni, sui binari che dalla piccola stazione di Golfo Aranci continuano verso la riserva naturale di Capo Figari, nei pressi di Cala Moresca. Che, adesso, quei treni siano scomparsi e che a Golfo Aranci non dimorino più rifiuti industriali tossici ma sirene kitsch che emergono dall’acqua al suono di musica più o meno tradizionale, poco importa: perché il problema si ripropone attuale altrove (e l’ intervista al “manifesto”del 2014 passa da quelle parti).

Ma ecco la chiusa di Finis Sardiniae: «Per quanto rimarranno fermi, a dormire nella sera di Cala Moresca, quei carri ferroviari con il loro silenzioso carico di rifiuti tossici? Il dente della storia è davvero più velenoso di quanto si possa pensare – anche alla lettera. Dormono, quei carri, e sembra dormire la Sardegna: sognando se stessa. Così torna in mente la “Lettera agli ebrei” di San Paolo. Ma davvero una patria è possibile? (Forse solo se si rientra nel cerchio magico delle cose, se si impara a rinominarle, a una a una; se proviamo tutti insieme a ridare un senso a quel che accade…)».

Ecco, la pagina saggistica conferma, in qualche modo, quella letteraria, ma propone una via positiva verso il superamento della crisi di senso; e un atteggiamento positivo è senz’altro nello scritto che chiude “Cenere e ghiaccio”, intitolato “La contraddizione di Dio”: «Così capita che i vecchi perdono di vista l’approdo della loro personale salvezza. Non perché, temerari, presumano di poterlo facilmente raggiungere; ma perché più della loro vita e (persino) della loro anima amano le vite e le anime dei figli. Senza la cui salvezza non c’è salvezza che valga». L’elegia è dunque da intendersi come amara constatazione della perdita del senso; ma ricordate Giobbe, la cui ostinata attesa di fronte al silenzio di Dio ispira a Mannuzzu uno dei suoi scritti più conflittuali, d’una conflittualità autenticamente conoscitiva: elegia, dunque, come strenua lotta per la riconquista del senso.

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