La Nuova Sardegna

Le città del mondo uccise dalle megalopoli

di Giacomo Mameli
Le città del mondo uccise dalle megalopoli

Mentre i piccoli centri si spopolano l’urbanizzazione inarrestabile sta snaturando i luoghi dove è nata la civiltà

13 marzo 2017
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SASSARI. C’è la crisi dei paesi. La Sardegna ne sa qualcosa con lo spopolamento dal Sulcis alla Gallura. Le città non se la passano meglio. Soffrono Cagliari e Sassari. Ma Roma vive l’età dell’oro? E le rivolte cicliche a Torino e Treviso? E le megalopoli del mondo? Il tema è affrontato da un giovane filosofo, Sandro Pusceddu, (Carbonia 1968), laurea a Cagliari, docente nei licei.

Con Max Weber ricorda che «la civiltà antica è nella sua essenza una civiltà urbana che trova nella città il suo fulcro economico». E sottolinea che la città «è il luogo di ascesa verso la libertà» e la raffronta alla «ascesi, alla lettura e alla agricoltura del monaco»: Parla di città con lo sguardo di Nietzsche, va da Teseo alla «figura danzata del labirinto». Il tutto nel volume “La crisi della città” (580 pagine, Cuec, euro 25). L’importanza del testo è certificata da uno dei maggiori filosofi contemporanei, Carlo Sini che supera i confini nazionali per radiografare la situazione di «un certo numero di città, o agglomerati urbani dell’Africa dove, per ragioni drammatiche e terribili, ogni giorno si aggiungono folle di rifugiati, sino a trentamila dalla sera alla mattina. Come chiamare ancora città un luogo continuamente travolto e stravolto da situazioni incontrollabili, caotiche, violente, più vicine a ciò che chiamiamo giungla che non al vivere civile, cittadino o no?». Se andiamo in Asia le cose non cambiano. Sini: «Riflettiamo sulle città costruite in Cina, del tutto ex novo: residenze urbane mai esistite prima, senza tradizione e senza storia, mera realizzazione tecnica e ingegneristica. Città sorte nel giro di un paio d’anni, in luoghi decisi a tavolino in base a meri calcoli economici». Sini rimarca il lavoro “efficace” di Pusceddu che affronta «il tema della città in uno con quello della campagna, realtà che tendono ad autodelimitarsi».

Era stata una delle eminenze della chiesa del Novecento, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, a esaltare il ruolo della città, pur scorgendone segnali di crisi, rilevandone «la “difficoltà di reggere alle nuove sfide”. Nel terzo tomo della Opera Omnia, Martini vedeva nella città «il ruolo visibile di manifestazione dell’umano» perché «diventa il luogo simbolico dove si scarica il conflitto, una cassa di sfogo di scontri ideologici e perfino di disagi comuni».

Dava le indicazioni per superare la crisi: «La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose, con un controllo sociale più serrato, non con la fuga e la recriminazione». Il testo di Pusceddu, con linguaggio filosofico, si muove in questo solco. Sottolinea che nella città di oggi «l’uomo finisce per essere uno straniero fra le mura della propria dimora, esule nelle sue vie, sradicato nel cuore delle sue piazze». Perché oggi la città è dominata dall’automobile («è il risultato della speranza e della promessa di libertà connaturata alla città»). Una città dominata dai «raduni oceanici» che si tramutano «nel prodotto dell’abisso che ci separa da quel paesaggio che noi impropriamemte chiamiamo natura». Una città dove «i canti e le musiche celebrano i concerti della nostra contemporaneità». Una città dove l’eremita è travolto dalla folla, il silenzio è sconfitto dall’urlo. Molto ancora resta da indagare. Perché «divenendo metropoli la città tende a espandersi inesorabilmente inglobando la campagna circostante, la quale in tal modo sembra destinata a scomparire e tutto diviene città». Pusceddu dice che «città e campagna formano un sintagma non scomponibile ma, tuttavia, prospettico: una sorta di unità monadica».

Per Sini c’è «una domanda inquietante» nel libro: come ridurre a unità l’essere umano che per sua natura è contemporaneamente un viandante in perenne movimento e un costruttore di confini, di limiti, di mura materiali e ideali. Una urbanizzazione inarrestabile orientata verso una radicale trasformazione del territorio agrario in senso urbano è diventato l’oggetto precipuo di studio non solo di urbanisti, politici, economisti ma anche di sociologi, psicologi, filosofi». Altre voci dovranno pur farsi sentire se non vogliamo che tutto sia sinonimo di crisi, dai piccoli villaggi (che scompaiono) alle grandi megalopoli (sempre più difficili da governare, Sardegna compresa). Ma su questi temi la politica tace.

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