La Nuova Sardegna

Hiro stregato dai sapori della Sardegna

di Roberto Sanna
Lo chef Hiro
Lo chef Hiro

Lo chef televisivo giapponese a Bortigiadas per la “Festa di lu mannali”: «Il segreto dei centenari? La carne di maiale»

07 febbraio 2017
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BORTIGIADAS. L’elisir di lunga vita, quello che consente di vivere fino a cento anni in Giappone e in Sardegna? La carne di maiale. Hirohiko Shoda, chef giapponese trapiantato in Italia dove ha lavorato per sette anni nel ristorante con tre stelle Michelin “Le Calandre” di Padova, protagonista di trasmissioni come “La prova del cuoco” su Rai 1 e “Ciao sono Hiro” sul canale satellitare Gambero Rosso, specialista della cucina crudista, domenica ha smistato con nonchalance i taglieri di sughero con la carne alla brace durante la “Festa di lu mannali” organizzata dal ristorante Golden gate per celebrare uno dei più antichi riti della tradizione agroalimentare sarda. Chef Hiro era l’ospite d’onore, ha scelto di festeggiare il suo quarantesimo compleanno insieme al suo amico Gianfranco Pulina, chef del ristorante ai piedi della Fumosa, e ha dimostrato di conoscere e apprezzare in tutte le sue declinazioni la cucina della Sardegna. Trovando anche un interessante punto di contatto tra le due culture: «Un recente studio universitario ha evidenziato che nell’isola di Okinawa, situata nella punta più a sud del Giappone e con un clima quasi tropicale - dice -, vivono un gran numero di centenari e la loro dieta è basata soprattutto sulla carne di maiale. Credo ci siano diverse similitudini con quanto succede nella Sardegna centrale, zona egualmente con tanti centenari e dove il maiale viene consumato in grandi quantità».

È d’accordo con questa affermazione?

«Sì, mi sono anche documentato sulle proprietà della carne di maiale, ho visto che è ricca di particolari vitamine. E dovrebbe essere consumata in maggiore quantità soprattutto in estate, quando il corpo umano è particolarmente carente di queste vitamine».

Non è la prima volta che viene nella nostra isola: che cosa pensa della cucina sarda?

«La Sardegna dal punto di vista enogastronomico è una terra interessante, perché ha molti prodotti particolari e la loro produzione cambia a seconda del territorio. Se ci si sposta verso l’interno si trovano carne e animali che pèroducono latticini, andando verso il mare cambia tutto, si trova soprattutto pesce, c’è la bottarga, il vermentino. C’è poi la stagionalità, in autunno il vino novello e le castagne. Insomma, avete tanta ricchezza. Non è solo un posto dove fare la vacanza in estate. I sardi dovrebbero imparare a promuoversi».

Ha qualche suggerimento?

«Sono venuto a Bortigiadas perché ritengo che siano queste le cose che fanno crescere. Non ci si limita al momento della tavola ma c’è uno scambio di esperienze e culture, c’è spazio per l’educazione alimentare. Per lo stesso motivo mi è piaciuto il Girotonno di Carloforte. Sono manifestazioni che rientrano nel mio modo di essere e anche di lavorare. Essere uno chef, per me, ormai è qualcosa in più che prendere le stelle Michelin. I tempi delle gare a chi è più bravo, a chi cucina meglio, sono finiti. Serve molto altro».

Che cosa serve per essere un bravo chef?

«Intanto parto dal rispetto per la materia prima. Io uso molto le mani, il tatto è importante per capire e prendere confidenza. E questo vale soprattutto per i bambini, devono imparare ad amare il cibo e la conoscenza passa per le mani, devono toccare il più possibile quello che mangiano. E vedrete che crescendo ameranno e rispetteranno il cibo. Bisogna cominciare subito, a vent’anni è già tardi, non abbiamo più quella sensibilità».

E poi?

«Lo scambio di esperienze, la voglia di insegnare agli altri. Capire che dietro un piatto c’è il lavoro di un artigiano che porta avanti la tradizione. Nelle grandi città, purtroppo, questo si sta perdendo. Come si sta perdendo, nelle grandi città, il piacere di stare a tavola. Ci si dà appuntamento tutti insieme in ristorante solo la domenica, ormai. Ci si ritrova, si pranza, si va via il più in fretta possibile. E per il resto si va al supermarket».

Lei lavora tanto in televisione: non crede che forse si sta esagerando con le trasmissioni di cucina?

«Sono due facce della stessa medaglia. Parlare tanto di cucina in tv è importante soprattutto per la conoscenza e la divulgazione, ci sono romani che non conoscono la cucina milanese e viceversa, non è possibile. D’altronde bisogna stare attenti a non inflazionarsi, a non diventare una moda che prima o poi passerà».

Da dove nasce la sua passione per il mondo occidentale?

«Mi considero un cittadino del mondo, come tutti i giapponesi del resto. Spesso di noi si ha una concezione sbagliato, non siamo un paese chiuso, non siamo solo quelli dei samurai. Mi piace uscire, confrontarmi con altri mondi, imparare. E, quel che più conta, condividere e insegnare. Ritengo l’insegnamento uno dei momenti più elevati, quando vedo gli altri diventare bravi grazie ai miei consigli mi sento felice, sereno».

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