La Nuova Sardegna

«Di Sassari amava ironia e vitalità»

di NELLO RUBATTU

Dallo scrittore Nello Rubattu un ricordo del narratore, dello studioso e dell’uomo

16 gennaio 2017
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NELLO RUBATTU. Con Giulio Angioni ci conoscevamo da molto tempo: io lo chiamavo «professor bronzetto», lui non faceva altro che prendermi in giro (ma non diceva proprio così, usava espressioni più popolari) e ghignava per i miei modi di dire non proprio in linea con il manuale del bon ton. Per lui la mia città, Sassari, aveva un linguaggio «liberatorio», per molti versi fantasioso. Una volta mi disse che noi per lui eravamo i napoletani della Sardegna: barrosetti e generosi allo stesso tempo. Lui era invece proprio il contrario: era uno che si incazzava a freddo, uno tagliente e abituato a parlare solo se aveva qualcosa da dire. Riflessivo, viene da dire. Che sapeva tenere le distanze con chi gli stava sulle scatole.

Ma non pensatelo triste. Non lo era. Quando leggeva i personaggi dei miei racconti mi ascoltava interessato. Gli piacevano le descrizioni carnali, i toni sguaiati. Ma dei miei racconti sapeva distinguere la commedia dalla tragedia e sapeva che le due cose spesso viaggiano insieme. Odiava quelli che io per lui chiamavo «i falsi professori», riferendomi ad un verso di una canzone di Fabrizio De André. Gli dava fastidio sentire certi personaggi parlare di industria, quando sapeva che sui riti della «laurera» non ne capivano una mazza. Come gli davano fastidio quelli che parlavano di lingua sarda e ne parlavano in italiano. Questi salotti alla madama Doré, fatti di campanilismi e di cattive letture etnografiche non lo attraevano. La lingua è il prodotto di un mondo di esseri viventi non certo un relitto per musei polverosi e senza anima. «Le lingue muoiono come tutti noi, piuttosto non bisogna dimenticare che dove ne muore una ne nasce un’altra». Non so quante volte me l'avrà detto.

Se fosse ancora fra di noi, me l’aveva promesso, oggi sarebbe il direttore scientifico del museo che stiamo mettendo in piedi ad Asuni: il «Museo e il centro di documentazione sulle culture migranti». A lui piaceva lo scopo, la pensavamo esattamente allo stesso modo: le culture sono un viaggio infinito di differenze fra popoli organizzati, un lungo incontro fra «altri», buono o cattivo che sia, ma un incontro. Le migrazioni non dividono mai. Uniscono. Detto così sa di retorico. Ma solo se detto da altri. Perché di Giulio Angioni tutto si può dire ma non che fosse un vecchio trombone.

Era venuto la prima volta ad Asuni nel 2004, ha dormito come tutti noi a casa di una famiglia del paese e con me in quell’occasione, era estate, ha messo in piedi un recital a due voci: io facevo quello che raccontava la carne, lui quello che ricordava al pubblico che ci ascoltava che sarebbe stata ora di dire cose serie e le diceva lui.

La gente ci seguì per oltre due ore di battutacce. Oltre quelli venuti da fuori, tutti gli asunesi ci ascoltarono ridendo e riflettendo su quello che diceva il «professore». Un termine che gli asunesi nei suoi confronti usavano con molto rispetto. Io lo prendevo in giro e dicevo che l’arcano di quella corrispondenza umana risiedeva in un fatto di comune problema d’altezza. Con il sottoscritto e il mio metro e ottanta non poteva di certo coincidere: «C'è nebbia in Campidano? Tu da così in alto lo dovresti sapere», mi sottolineava interrogandomi. Solo che quel rispetto degli abitanti di Asuni in quei due giorni se l’era guadagnato guardando la gente negli occhi e facendo capire molto bene che il fatto di essere come loro a lui non risultava di certo una vergogna.

Lo so anche questa è una descrizione un po’ retorica, però io questo ho visto.

Non so se con lui mi vedrò in un altra vita, ho forti dubbi. Se dovesse capitare devo però dire che mi farebbe piacere.

A si biri, Giu’

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