La Nuova Sardegna

“Falsi e bugiardi”, i sardi inventano un’altra Storia

“Falsi e bugiardi”, i sardi inventano un’altra Storia

Il romanzo racconta una vicenda affascinante e ricca di molti colpi di scena Una Sardegna che emerge dall’Ancien Régime e si proietta verso il futuro

08 novembre 2016
6 MINUTI DI LETTURA





Anticipiamo le prime pagine del romanzo di Pietro Maurandi “Falsi e bugiardi” (112 pagine, 13 euro) , che Arkadia manda in libreria da oggi.

* * *

Scese lentamente le scale, appoggiandosi a un bastone da una parte e al braccio del figlio Giovanni dall’altra. Quando si trovò nell’atrio dell’ospedale civile, disegnato da Gaetano Cima, magnifico architetto, respirò a pieni polmoni. All’esterno, fra le colonne dell’ingresso, girò la faccia verso il sole tiepido di primavera e si lasciò abbacinare per qualche attimo gli occhi. Del resto, ci teneva a verificare le nuove condizioni della sua vista, soprattutto dopo che i medici gliela avevano sistemata dandogli un paio di occhiali nuovi, fatti, a sentir loro, con le ultime tecniche. Avevano così risolto i problemi di Ignazio. E lui aveva anche approfittato di quei cinque giorni in ospedale per farsi sistemare l’apparato digerente, che da qualche tempo aveva cominciato a dargli qualche piccolo fastidio. Ora stava di nuovo bene e assaporava le prime ore di sole e di aria unite alla gioia di tornare a casa, alle sue amate attività. Al Regio Archivio, suo lavoro abituale, sarebbe tornato l’indomani.

UN’ARIA DA FAUNO

Ignazio era robusto e tarchiato, dotato di un fisico forte e sano, di muscoli e di ossa. Ancora più sano era il suo cervello, che non smetteva mai di seguire pensieri e di progettare cose da fare. Il viso tondo, sul collo corto e grasso, gli dava un’aria da bambino ben nutrito cresciuto più del dovuto. Ma qualcosa nello sguardo e nel modo di inarcare le sopracciglia metteva in mostra tutt’altro carattere. Di norma gli occhi guardavano gli altri da sotto in su, come a voler indagare qualcosa che fosse celato nelle persone incontrate. Le sopracciglia, quasi unite sopra il naso lungo e sottile, non smettevano mai di inarcarsi e di muoversi su e giù, come se nella sua mente fosse sempre presente un pensiero forte e ardito; il tutto gli dava un’aria vagamente da fauno o comunque da figura mitica e carica di mistero, ma piena di brio e di allegria.

NEL CUORE DI STAMPACE

Quando accennò a scendere la scalinata dell’ingresso, Giovanni lo fermò perché aveva chiamato una carrozza, che già li aspettava. La strada era breve, la loro casa si trovava nel quartiere di Stampace, appena sotto l’ospedale; ma il giovane non voleva che il padre si affaticasse più del necessario lungo la strada ripida e polverosa.

Quando furono di ritorno, dopo aver abbracciato moglie e figli, Ignazio entrò nella stanza lunga e stretta che si era fatto ricavare a fianco della camera da letto e che era il suo laboratorio. Gettò allegramente in un angolo il bastone, come fosse una liberazione, e aprì quasi accarezzandole le ante dell’angoliera. Tirò fuori una scatola di legno rettangolare dov’era conservata la sua preziosa penna d’oca, sfiorandone le setole quasi commosso; prese da un cassetto il calamaio e dalla cassapanca intagliata tirò fuori un fascio di pergamene, antiche ma intonse. Tutto il materiale lo appoggiò sul lungo tavolo che, addossato alla parete, occupava per intero la lunghezza della stanza. In fondo, nella parete piccola, aprì la porta che dava sul cortile e fece entrare l’odore aspro e gentile dei limoni, i frutti del suo albero preferito.

LE GESTA DI UGONE

Tirò fuori anche i fogli di appunti. Sistemato Gialeto, il prode eroe che egli aveva fatto vivere in lotta per la liberazione dei sardi contro i bizantini; mandato per le vie del mondo Torbeno Falliti, esimio e finora sconosciuto giurista e poeta del Dodicesimo secolo; esaltato Bruno de Thoro, versatore in lingua sarda e italiana già nel secolo Dodicesimo; dormivano ancora nel sonno dei mai morti perché mai nati gli splendidi codici che raccontavano le gesta di Stefano e di Valente, di Giorgio di Lacon, di Ugone V giudice d’Arborea e di molti altri, con cronache e poesie scritte in latino, in sardo e in italiano antico. Documenti che presto avrebbero preso vita e avrebbero dato gloria, non certo al povero Ignazio ma alla terra di Sardegna. Avrebbero confermato quello che emergeva già dalle pergamene, che la Sardegna era stata al centro della vita politica e della cultura dell’Italia fin da tempi antichissimi e in modo insospettato senza quelle carte.

TRAPPOLA DI CARTA

Ignazio si fregò le mani contento, le sentiva già prudere al solo pensiero di quante belle cose antiche avrebbero scritto, e ancor più di quanti potenti e dotti moderni avrebbero ingannato.

A lui piaceva l’inganno, ma non per far male agli altri. Solo per la gioia di vedere intellettuali, veri o presunti, e comunque pieni di sé e di quello che sapevano, infilarsi bellamente nelle sue trappole e caderci dentro.

COME NELL’INFERNO

Passò nella camera da letto e si distese per qualche tempo a riposare gambe e schiena. Sul comodino conservava le sue opere preferite, l’Eneide e la Divina Commedia. Non mancava ogni notte, prima di dormire, di leggere, alla luce fioca del lume, alcuni versi dell'una o dell'altra. Aprì l’ Inferno e trovò, nei primi versi, il passo che cercava: “Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi”. E pensò che quei versi si potessero adattare nientemeno che alla sua vita: “Nacqui sub Victor, in ore tristi e tarde vissi in Caller sotto Carlo Felice e feci carte mie false e bugiarde”. Del resto anche lui era un poeta, sia pure ignoto, anzi clandestino.

CUCITI E RICAMI

Ignazio lavorava alacremente alla sua opera meritoria, le carte false e bugiarde. Non poteva farlo in archivio dove era a contatto con altre persone ignare. Lo faceva nella sua casa di Stampace, nella città bassa, dove si rifugiava dopo la sua giornata nel Regio Archivio, di cui era direttore. (...) Lo stipendio di Ignazio, quello dell’archivio, e i lavori d’altro tipo che faceva, consentivano un’esistenza dignitosa (...) Aveva quattro figli, tre femmine e un maschio, che era perfino riuscito a non lasciare ciondolare in casa o a passare il tempo da una bettola all’altra. Le femmine avevano imparato dalle suore il cucito e il ricamo, e lo praticavano con grande abilità; il maschio, Giovanni, giovane di buona intelligenza e di grande volontà, aveva studiato legge all’Università e ora frequentava lo studio di un famoso avvocato e trafficava in Tribunale.

SEMPLICI E SAPIENTI

Non era il massimo che Ignazio Pillito avesse sognato per il suo figlio maggiore, per lui quello del leguleio era un mestiere che viveva sulle disgrazie degli altri e che, a volte, le cercava e addirittura le costruiva. Se si fosse appassionato anche lui all’archivistica e alla paleografia avrebbe avuto un futuro assicurato. Non che avrebbe guadagnato tanti soldi, Ignazio ben lo sapeva, ma con lo sfrenato desiderio che serpeggiava fra i sardi di avere un passato illustre, sarebbe stato agevole intraprenderne la ricerca su antichi documenti, e all'occasione, se necessario – pensò Ignazio col suo ghigno faunesco – crearli per la gioia dei conterranei, fossero essi semplici o sapienti.

© 2016 ARKADIA EDITORE

In Primo Piano
Sanità

Ospedali, Nuoro è al collasso e da Cagliari arriva lo stop ai pazienti

di Kety Sanna
Le nostre iniziative