La Nuova Sardegna

Bergonzoni e la lucida follia del poetare

di Antonio Mannu
Bergonzoni e la lucida follia del poetare

L’attore emiliano protagonista a Sassari “L’Amorte”, una dissertazione sulla parola

24 ottobre 2016
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SASSARI. Alessandro Bergonzoni ha presentato a Sassari, sabato sera al Conservatorio, il suo “L’Amorte”, precisando: «non è uno spettacolo, ma una dissertazione sulla parola, collegata al tema di questo Ottobre in poesia, perché parla di gioia, di dolce naufragare, di follia». Ha detto una bugia perché ha fatto spettacolo: 55 minuti scoppiettanti, graffianti, leggeri, teneri, molossi. Ringhianti! «Non è follia guardare uno sceneggiato? Perché lo fai? Ma, ho tempo, non è volgare. E come chiedere: com'è la tua fidanzata? Ma, così, non rutta». (professor Morandi e il Suo marketing con Morandi! E' vero, non rutta. Ma non potremmo-dovremmo aspirare-pensare a qualcosa di più giusto e bello in cui investire!). Bergonzoni racconta la galera, in due parole un documentario. «Siete in bagno, sulla tazza del cesso, portate gli spaghetti e il vino, invitate persone a mangiare. Voi defecate. E' così in quei cessi di celle». Abbiamo chiesto a Bergonzoni a cosa serve la poesia. «Fortunatamente non tutto è utile. Spostandoci dal tema dell'utilità arriviamo alla bellezza, alla magia, al mistero, al segreto, all’arte. Cose che non hanno a che vedere col servizio. Casomai la poesia potrebbe congiungere, far coagulare il mondo reale con quello pensato. Oggi è il 22 ottobre, giorno in cui è stato ucciso Stefano Cucchi. Nel carcere, negli ospedali spesso, manca la poesia. In guerra c’è il più alto tasso di assenza di poesia, che è più necessaria dell’etica, della morale, dell’anticorruzione, della sanità. E' il punto di partenza. Senza poesia non c’è giustizia, non c’è benessere, non c’è cultura, non c’è sanità. Non che non creda nella parte sociale e politica della vita, ma se prima non c’è la poesia non serve la politica, non è utile la giustizia, non è utile la legge.»

“L’Amorte” è anche il titolo di una raccolta di testi poetici. Da cosa è nata l’urgenza di scriverli e pubblicarli?

«Mi piace questa domanda. Urge è un verbo che mi interessa. L’urgenza è un’impellenza. Scrivere, tutti scriviamo, però per chi sente quest’impellenza la poesia ha un’urgenza antropologica, filosofica e fisica. Non sempre questo corrisponde alla risolutezza, alla bellezza, alla giustezza della scrittura».

Qui in Sardegna c'è una sentita tradizione di gare estemporanee di “canto a poesia”, una pratica che esiste anche in altri contesti.

«Ne ho sentito parlare. Mi manca e vorrei vedere. C'è qualcosa di simile in Toscana, anche se di diverso credo. Mi interessa molto la tradizione, il tema etnico, il tema della terra. Credo che qui si lavori sul suono, su una forma di riverbero quasi musicale. Questo nella mia regione, in Emilia, manca in maniera scandalosa. Fortunatamente nell’Italia continentale c’è un po’ di più, soprattutto quando si parla di certi dialetti, penso alla Sicilia, alla Campania, alla Puglia. Mi piacerebbe vedere questa poesia, che deve essere pubblica, gettata, musicata. In questo caso non è più solo poesia ma è anche poesia».

Ha toccato il tema dei dialetti, le lingue cosiddette minori. In Sardegna abbiamo una lingua che rischia di estinguersi. C’è resistenza ma il pericolo esiste.

«Perché è soprattutto orale mi hanno detto. Per quanto riguarda il sardo, nella mia vastissima ignoranza, devo dire che la passione che ho si unisce al dispiacere che questa lingua si senta pochissimo in Continente, tutto questo è poco visitato, devi essere un appassionato, un ricercatore. A me farebbe piacere che questo mondo linguistico sardo potesse entrare nei festival, in ambiti pubblici e popolari. Anche se credo che la meraviglia sia ascoltarlo qua e trasportarci noi nel luogo vostro. Però io sono lontano dalla divisione delle terre. Mi rendo conto: la Sardegna non può essere la Toscana e la Toscana la Puglia, ma credo che l’asse terrestre faccia sentire pugliesi, toscani e sardi anche quelli che non lo saranno mai. Quando vengo in terra sarda sento e capto la mia sardità, che deve imparare a riconnettersi con il luogo. Non siamo solo radici, abbiamo bisogno dei rami che per me sono più importanti, perché permettono di andare in alto».

E con le foglie respiriamo.

“Esatto. Quando si dice vivo e vegeto. Anche se con la parola vegetare intendiamo qualcosa di non vitale. Faccio parte dell’associazione Casa dei risvegli che lavora sul coma. Per noi vegetale è una persona che non sente, non vede, non agisce, non è utile, e mi collego alla prima domanda. Questo lavoro sul coma è invece parte di una natura che non siamo capaci di comprendere, nel senso di capire, ma anche di fare nostra. Il grande lavoro è legarsi alla natura, respirare con le foglie».

Cos’è la lingua: strumento, dono, conquista, vita?

«Mi piace! Strumento, dono, vita. Poi la parola “conquista” mi fa paura, ricorda la guerra, il potere. La lingua è potenza, energia, luce, chiamata, invocazione, però deve avere un pensiero attaccato, sennò siamo solo parolai. La parola deve avere un’anima. Mi piace pensare all’idea di voce del verbo anima, come se fosse un infinito, animare.»

Ci modella la lingua, ci cambia?

«La lingua ci prega di sentire il valore delle parole, le parole come potenza, espressione. La parola morte, vita, paura, uomo, la parola donna, bambino, turpe. La parola guerra. Ci chiedono di imparare, di diventare. Noi invece al massimo siamo avvenenti, ma non sappiamo avvenire. La parola ci chiede di capire la grandezza del cosmo e di non farlo solo se siamo religiosi, animisti, spirituali, o in punto di morte. Ce lo chiede sempre, chiunque noi siamo».

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