La Nuova Sardegna

Storia e poesia collettiva dei “laribiancos”

di Roberta Sanna
Storia e poesia collettiva dei “laribiancos”

Cada Die teatro, Pierpaolo Piludu e Paolo Fresu rendono omaggio alla figura di Francesco Masala a cento anni dalla nascita

19 settembre 2016
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CAGLIARI. Quando, dilatando il ritmo dei rintocchi, lo “scampanio” del flicorno di Paolo Fresu, sull’onda sonora continua che si allarga riempiendo lo spazio della Corte della Vetreria, si innalza per gradi verso il cielo notturno, diventa musica e armonia siderale fino a raggiungere la nota più alta, in un andare in gloria di perfetta chiusura. Quando il teatro incontra la letteratura e la prende con sé in un moto vitale ed epico che solleva racconto, parole e note, ne fa una storia collettiva che unisce autore, interpreti e spettatori in uno stretto, empatico legame.

L’omaggio a Francesco Masala.Cada die e Paolo Fresu, Pierpaolo Piludu e Laribiancos regalano a Francesco Masala un compleanno postumo pieno di rispetto e ammirazione, perfetto appunto sino all’ultima nota. Certo anche l’autore sarebbe stato felice di vedere sabato notte quel cortile affollato dal pubblico animarsi, grazie agli strumenti teatrali e musicali degli interpreti, anche con i suoi personaggi. Umili, ultimi, dimenticati dalla storia, che dal 1962, entrati nel volume “Quelli dalle labbra bianche” (con Feltrinelli, ora edito da Maestrale), ogni tanto tornano nelle letture, o chiamati da altre arti in scena e al cinema, ad esprimere di nuovo sentimenti e pienezza di vita come per compenso e diritto ha voluto l’autore.

Perché quella di Culubiancu, campanaro pagato a rintocco per onorare morti freschi e morti secchi, è proprio una cerimonia di vita, che lui, unico sopravvissuto del Blocco K nella maledetta campagna di Russia della 2° Guerra Mondiale, dedica ogni anno dal 1940 ai suoi nove commilitoni scomparsi, nel giorno in cui ricevettero la cartolina rossa, richiamo fatale della classe di ferro.

Vivi e morti tra i laribiancos.

Così quella di Pierpaolo Piludu, coi rintocchi del suo ritmo scenico, con la postura generosa del narratore pronto ad offrire espressione e voce a chi convoca in scena, è cerimonia teatrale di piazza e paese. E nella piazza e tra le vie di Arasolè li richiama tutti insieme e non solo ad uno ad uno, ancora una volta vivi tra i vivi, affamati come sempre, esangui nelle labbra, che con gesto minimale e potente indica e accarezza. Non sono le lapidi lontane che ci invita a visitare ed onorare, ma le loro vite di allora che si impone di non dimenticare, anzi, la vita dell’intero paese e delle sue campagne, fino ai “salti” più distanti, ai confini con le foreste del Goceano. Ma non potrebbe farlo davvero senza richiamare anche la lingua cerimoniale giusta, volgendo spesso al sardo logudorese, anche se qui l’autore non lo utilizzò, e andando anche a pescare nelle altre opere in cui tornano i laribiancos.

L’universo di personaggi.

L’attore/narratore ricompone così il tessuto vitale di Arasolè, a volte come osservando il brulicare dalla cima del campanile, a volte entrando anima e corpo a dar volto e parola a ciascuno, o commentando tenendosi a poca distanza, come testimone partecipe che prende per mano Tric-Trac, Pistamurru, Mammuttoni, Michele Girasole detto Sciarlò, Animamea, Peppe Brinca e i gemelli Cocoi, Andrea e Matteo, e li accompagna dal momento della chiamata a quello della partenza sul carro bestiame ferroviario sino alla morte, mostrando attitudini e comportamenti, mestiere e vicende, amare o comiche, di nascita –spesso di “battezzati al buio e senza sale” - e di vita.

Sorriso della rappresentazione. Alle loro storie non sempre felici ma ancora lontane dalla guerra, di ambulanti, fabbri, manovali, calzolai, contadini e caprai, si intreccia quella di Don Adamo d’Orvenza, l’unico non laribianco, il possidente che condivide gli ultimi momenti al fronte.

E così le storie delle loro madri, mogli o fidanzate, Giovanna la rossa o sa bagassa, Serafina che in guerra ha già perso il marito, Donna Filiana nobildonna dalle tette di miele, Rita Fai, prima fidanzata e poi zitella vedova dal viso di pecora pazza, che canta ninne nanne ad un figlio di stracci. E ancora gli altri personaggi, dal postino a s’eremitanu che vende i biglietti della fortuna col suo pappagallino, dal gerarca fascista cagliaritano a conch’e corru, il caprone che tira giù le ghiande a testate. Tutte figure che restano impresse nella memoria, saltano fuori vive e a tutto tondo, ritornano più volte nel racconto aggiungendo frammenti e aneddoti, diventando epiche e leggendarie in un rotolare d’angurie, per bruttezza e capacità d’amare, per i modi di dire o scherzi pedagogici, per tenera sventatezza o l’imitazione di Charlot amata dai bambini, per la bellezza da Automedonte e le brame della nobildonna. Attraverso le musiche originali di Paolo Fresu e l’interpretazione di Pierpaolo Piludu, complici per maestria e per affetto verso il racconto e il suo autore, questo lavoro, cresciuto nel tempo fino a diventare un grande spettacolo, ricco di quel “sorriso della rappresentazione” che il regista Giancarlo Biffi ha saputo infondergli, esalta il vivo ricordo di Francesco Masala più di qualsiasi convegno letterario.

C’è da augurarsi che nell’impegno dell’assessore regionale Firinu, che ha aperto la serata celebrativa insieme a Paolo Pillonca, volto a valorizzare la conoscenza dell’opera poetica, letteraria e saggistica di Masala, possa esser compresa la diffusione scolastica di questo magico “Laribiancos”.

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