La Nuova Sardegna

La Shoah alla prova del dramma dei migranti

dall’inviato
La Shoah alla prova del dramma dei migranti

Wlodek Goldkorn parla del suo ultimo libro, “Il bambino della neve”, ritorno alla Polonia dei lager

04 luglio 2016
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GAVOI. Memoria. Torna spesso questa parola. D’altronde le storie nascono dalla memoria e il festival di Gavoi vive di storie. Nel suo nuovo libro, “Il bambino della neve” (Feltrinelli), Wlodek Goldkorn riflette proprio sulla memoria ricostruendo la storia dei genitori scampati agli orrori della seconda guerra mondiale. Giornalista di origine polacca, nato a Katowice (non lontano da Auschwitz), Goldkorn è stato a lungo responsabile del settore cultura del settimanale l'Espresso. Abituato a raccontare gli altri, in questo libro racconta i “fatti suoi”. Esempio di come l’esperienza personale con il filtro della letteratura può assumere valenza universale: «Certo – dice –- è un mestiere completamente diverso raccontare se stesso e raccontare gli altri».

La via seguita per questo libro quindi qual è stata?

«C’è stata l’invenzione di un io narrante che non è cronaca, ma rientra nel genere letterario. Nel giornalismo devi essere più possibilmente fedele ai fatti e cerchi sempre di verificarli. E qui invece no, è una serie di ricordi personali, di associazioni mie che non devono necessariamente corrispondere alla verità fattuale. In genere corrispondono, però non era questo il mio problema. Il mio problema era cercare il senso della memoria, più che raccontare i fatti della mia vita».

E cos’è allora memoria?

«La memoria per me è un’invenzione, immaginazione. Una costruzione culturale e psicologica. E cambia con noi. Io lo stesso fatto della mia vita lo ricordo diversamente oggi rispetto a trent’anni fa. Perché sono cambiato, è cambiata la situazione politica e culturale. La memoria è la proiezione di quello che in qualche modo vorremmo essere veramente. Ci ricordiamo noi stessi come vorremmo essere, anche nel negativo».

Quindi la memoria può essere solo individuale?

«È difficile sia collettiva, condivisa. Scegliamo quello che vogliamo ricordare in base a quello che vogliamo oggi di noi stessi e della società».

Ma per scrivere questo racconto è servito tornare nei luoghi dov’è nato?

«Sì, sono tornato. La seconda parte del libro è un viaggio nei luoghi per raccontarli come sono oggi. Nei campi di sterminio, dove si andava dai treni direttamente alle camere a gas. Ho cercato di raccontare cos’è rimasto oggi di questa cosa, che tipo di memoria resta».

La memoria di quei luoghi, della Shoah, cosa ci insegna?

«Su questo ho un pensiero molto radicale. Oggi diciamo “mai più” riferito ad Auschwitz e in generale alla tragedia dell’Olocausto, ma non ha senso se poi tolleriamo quello che vediamo nel Mediterraneo. Se accettiamo che ogni giorno centinaia di persone anneghino in mare, allora non si può dire “mai più”. E quindi alla domanda, possiamo accoglierli tutti, io rispondo sì. È stata inventata la categoria dei clandestina che non esiste nella natura. Soltanto perché non hai i documenti in regola sei diverso da me e posso condannarti a morte? Noi stiamo condannando ogni giorno delle persone a morire annegate soltanto perché non abbiamo l’immaginazione sufficiente di dire portiamoli qui con le navi. So che fa scandalo, ma se esiste un insegnamento della Shoah oggi è questo». (f.c.)

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