La Nuova Sardegna

Intervista con Dario Fo: «Vi racconto le malefatte di vescovi e Papi»

di Angiola Bellu
Intervista con Dario Fo: «Vi racconto le malefatte di vescovi e Papi»

«Dario e Dio», il nuovo libro del Premio Nobel. Avidità e intolleranza, storie di ieri e di oggi. «Una mia rilettura della Bibbia e dei Vangeli, della figura di Maria, del rapporto di Gesù con le donne, dei tanti guai combinati dalla Chiesa»

02 aprile 2016
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«Dario e Dio» (Guanda) è il titolo irrestibile dell’ultimo libro di Dario Fo, in cui il Premio Nobel, “provocato” da Giuseppina Manin, racconta, rilegge, interpreta l’immenso patrimonio di testi sacri, ufficiali e non. Dario Fo, ateo militante, da sempre subisce il fascino del sacro, materia studiata a fondo, analizzata, dissacrata con ironia e rispetto per i fedeli (meno per le gerarchie religiose), mettendo in scena capolavori di fama mondiale (uno su tutti “Mistero buffo”). «Dario e Dio» non può esimersi dall’ essere anche lettura politica e sociale del nostro mondo come ci ha raccontato Fo in quest’intervsita.

«Dario e Dio». Quasi due biografie. Una da fonte certa, l’altra da una continua ricerca, incontro e scontro con l’oggetto in questione. «Diciamo di sì. Uno si sforza di parlare d’altro ma finisce che parla quasi sempre di sé».

Nella parte del libro in cui lei racconta di sé, sapientemente sollecitato da Giuseppina Manin, parla della sua mamma Pina; una donna che le ha proprio dato l’impronta. «Certo, se non altro sull’importanza dell’imparare, dell’apprendere. Il fondamento assoluto di noi giovani era arrivare ad apprendere. Leggere, studiare, essere curiosi, non accontentarsi delle soluzioni facili. Andare a rivedere le storie che ti raccontano e riscoprire che sono molte volte fasulle».

Da sua mamma ha imparato la voglia di apprendere. I fabulatori del Lago, invece, che raccontavano nelle osterie – a proprio modo – leggende e verità, episodi della Bibbia e dei Vangeli, che cosa le hanno insegnato? «Soprattuto ad essere assolutamente liberi; poi anche ad immaginare. Immaginare nel paradosso, pensare il grottesco, l’assurdo. Perché questi sono gli elementi che ti insegnano a non fidarti delle fandonie che ci raccontano. A comiciare dalla scuola».

È tutta una fandonia? «Non tutto, ma ce ne sono moltissime. Bisogna saperle rintracciare, scoprirle».

Una verità del tutto certa, venendo ai rappresentanti di Gesù in Terra, è che BenedettoVI ad un certo punto si è dimesso. Come ha letto questo gesto? «È stata l’impossibilità di questo uomo di continuare a governare: aveva nemici, vescovi, che fingevano di lasciargli lo spazio ma lo controllavano e lo mettevano in ambasce. Attraverso anche forme ricattatorie, evidentemente. La Chiesa è famosa per distruggere le personalità».

Qualcosa del genere è forse successo a Papa Luciani? «Be’ quello l’hanno distrutto completamente, non solo il suo pensiero».

Ma Francesco non rischia niente? «Altroché se rischia. Questi qui sono spietati. Non può dire “vescovi andate via”, deve tenerseli. Deve combattere, capovolgere la situazione. Per questo li attacca sempre: ogni suo discorso, per il 90% è diretto soprattutto a loro».

In «Dario e Dio», lei dà una visione bellissima del Purgatorio: un po’ di Purgatorio non ci starebbe male, a patto che espiare le colpe fosse un percorso di espansione della conoscenza, della coscienza. «Sì, prima di tutto però ricordo che il Purgatorio è un’invenzione malefica della Chiesa, nel senso che – scavalcando completamente il Vangelo – a un certo punto si offre alla gente la salvezza attraverso il denaro. “Noi ci mettimao il coro – dicevano – le voci bianche, il rito, la solennità della Chiesa. Ogni volta che noi preghiamo per te, devi pagarcela. Ma noi ti facciamo arrivare in paradiso. Tutti gli anni di Purgatorio – ecco creato il Purgatorio! – invece te li fai tranquillo beato. Più sono i soldi che paghi e più veloce sarà l'ascesa in Cielo. Da far venire i brividi».

Lei cita il “Settimo sigillo” di Bergman e a proposito della partita a scacchi dell’uomo con la Morte dice che “quel che conta è la partita”. Cosa significa? «Vuol dire dignità. Vuol dire non temere la Morte, ciò che ci aspetta dopo. Io non temo perché non credo che ci sia un giudizio. Quindi non cerco di essere onesto perché temo il giudizio negativo o temo l’Inferno: no. Io sono libero, non temo, ciononostante cerco di non nuocere ai miei amici, alla gente, ai cristiani, agli esseri viventi. Cerco anzi di difendere coloro che sono aggrediti dai Poteri».

Da quando siamo diventati – noi umanità – monoteisti, si uccide spesso in nome di Dio. Lo hanno fatto i cristiani, già i musulmani... ma pareva, questa, una cosa sepolta dalla Storia. Invece... «Invece oggi ci siamo dentro, è storia nostra. Sarebbe però un cattivo modo di leggere la Storia, se non andassimo un po’ indietro cercando capire che cosa abbia spinto il ricatto che ora abbiamo addosso. Noi siamo stati dei dominatori, siamo stati dei pirati, dei grandi ladri di denaro, diritti libertà, con tutti quelli che stanno al di là del mare, in Africa e in Medioriente. Noi abbiamo creato un odio veramente infinito nei secoli. Mussolini ha fatto le conquiste in Africa nel Novecento. Le mettiamo da parte? Questa è la base. Questa che stiamo vivendo è una cosa scellerata. Però ha una radice».

Lei ricorda in «Dario e Dio» il vangelo apocrifo di Giuda, l’“Ultima cena” di Leonardo e Amos Oz per fare un’ode a Giuda e al suo tradimento, visto come atto di fedeltà estrema. «Lo dice il Cristianesimo: Cristo sapeva fin dall’inizio che sarebbe stato tradito. E conosceva anche il nome del traditore nel momento stesso in cui lo portava dentro il gruppo. A quell’uomo aveva già dato l’obbligo di tradirlo. Il tradimento, secondo i cristiani, serviva ad avere la possibilità di salire sulla croce. Nel momento in cui moriva nel dolore, Cristo salvava l’umanità».

Lei è stato il compagno di una donna straordinaria, Franca Rame. Figlia d’arte. Cosa ha imparato da lei? «Un distacco enorme. Distacco riguardo alle risse, agli interessi, alle velleità. Mi ha insegnato a superare le fisime che tormentano l’uomo. Una lezione, quella di Franca, in gloria della ragione. La ragione come fondamento della vita. La ragione come distacco dall’odio, dai risentimenti, dalla guerra per riuscire a vincere, soprattutto dalla vendetta. Questo mi ha insegnato. Quando mi arrabbiavo per delle cose che succedevano nel nostro mestiere, mi diceva: “Ma cosa te la prendi? È teatro, dopotutto”. Per noi era la vita, ma lei lo abbassava a “teatro dopotutto”. Un modo di superare gli egoismi, l’avidità e il desiderio di vendetta davanti alle vessazioni e alle ingiustizie».

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