La Nuova Sardegna

«Così provo a raccontare gli abissi dell’animo umano»

di Fabio Canessa
«Così provo a raccontare gli abissi dell’animo umano»

Esce “Senza lasciare traccia”, primo lungometraggio di Gianclaudio Cappai Un cast di livello con Michele Riondino, Elena Radocinich e Valentina Cervi

15 marzo 2016
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di Fabio Canessa

«Da bambino sognavo di fare lo scienziato, poi da ragazzo ho studiato a lungo chimica nonostante l’unico talento di cui fossi consapevole era la scrittura, soprattutto la scrittura per immagini». L'approdo al cinema è stato in fondo inevitabile per Gianclaudio Cappai. Nato a Cagliari, nel 1976, decide a un certo punto di seguire questa sua inclinazione e frequenta l’Accademia internazionale dell’immagine de L’Aquila, diplomandosi in regia e sceneggiatura. Sviluppa poi diversi progetti tra i quali il corto “Purché lo senta sepolto”(2006), vincitore del Torino Film Festival e finalista ai Nastri d’argento, e “So che c’è un uomo” (2009), mediometraggio presentato con successo alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Ora è pronto il suo primo film lungo dal titolo “Senza lasciare traccia” che sarà in anteprima assoluta al Bifest, il festival di Bari in programma dal 2 al 9 aprile. Prodotto da Hirafilm, arriverà subito dopo anche nelle sale (dal 14 aprile), distribuito in collaborazione con Il Monello Film, società sassarese guidata da Grazia Porqueddu. La storia vede al centro Bruno (Michele Riondino) che porta i segni sulla pelle e dentro di sé, nella malattia che lo consuma lentamente, di un passato che ha cercato di dimenticare e del quale non ha mai parlato con nessuno, neanche con la sua compagna (Valentina Cervi). Fino a quando non ha l’occasione di tornare nel luogo dove tutto è cominciato: una fornace ormai abbandonata, diventata il rifugio di un uomo (Vitaliano Trevisan) e della figlia (Elena Radonicich). Per guarire Bruno deve trovare un colpevole, guardare in faccia l'origine del suo male.

Cappai, come nasce questo progetto?

«Questo film, che ho scritto insieme a Lea Tafuri, è nato durante un viaggio. Una mia amica malata di cancro mi confidò, ma era come se lo ripetesse a se stessa, come quella malattia fosse legata nella sua percezione a un fatto traumatico della sua infanzia. Le chiesi di cosa si trattasse, ma lei non volle assolutamente rivelarmelo. Quale fosse quel trauma, e soprattutto in che modo una persona potesse reagire, lottare e rivendicare una sorta di risarcimento per superarlo, sono state le premesse da cui poi si è sviluppato tutto il resto che si può vedere nel film».

A proposito della reazione a sedimenti lasciati da possibili traumi, nelle note di regia scrive: “L’urgenza di questa dinamica si rileva a livello personale ma anche sociale”. La storia particolare che racconta assume dunque una valenza molto più generale?

«I miei lavori partono sempre dall’essere umano, dalla sua interiorità e da come reagisce una volta che verrà catapultato in una certa situazione, in certi conflitti e così via. Se poi queste dinamiche si rispecchiano anche a un livello più ampio, socialmente riconoscibile, allora tanto meglio, ma sinceramente non è un grande soggetto quello da cui parto. In questo mi sento vicino a certi pittori, che dicevano di dipingere finché il soggetto non scompariva del tutto. Lavorare sul motivo, sull’essenza, questo è interessante, ed è quello su cui in futuro voglio insistere ancora di più».

In questo senso il suo cinema presenta caratteristiche ricorrenti?

«L’intenzionalità a riproporre certe tematiche un po' mi destabilizzerebbe, rischierei di perdere la sincerità dell’approccio. Mi ritrovo in un percorso in cui ci sono situazioni, corpi e oggetti da perlustrare e scoprire. Quello che vorrei fare è cercare di sfuggire dai generi codificati e lasciarmi prendere dal gioco della scoperta. Mi interessa il mistero, il dubbio, il perturbante. Ecco vorrei usare il cinema proprio per questo: non per raccontare un’esatta verità, men che meno il sociale, bensì per cogliere le contraddizioni e le incertezze che abitano tutti noi e con cui spesso, a causa dell’ambiguità insita nei rapporti umani, preferiamo non confrontarci pur sapendo che esistono».

Tornando al film, appare fondamentale la scelta location principale. Perché una vecchia fornace?

«La scelta di una location, per quanto mi riguarda, è sempre una scelta logica e mai estetica. Non faccio valutazioni in base alla bellezza di un luogo. Le vecchie fornaci mi hanno sempre incuriosito e in questo film, oltre a creare una claustrofobia enorme pur essendo un luogo molto isolato, mi sembrava simbolico di certi rapporti umani, detonatore di pulsioni o reazioni devastanti. Ricordiamoci che un film è sempre un oggetto mentale. Filmare un paesaggio diviene il clima interiore del personaggio. Tutto è mentale, non c’è nulla di topografico».

Ma dove avete girato?

«Soprattutto in provincia di Lodi. Poi a Piacenza e qualcosa, in interni, anche a Roma».

Con un cast di interpreti di livello, tutti noti per esperienze cinematografiche ma anche teatrali e televisive.

«Sono stato fortunato, hanno dato molto al film. Michele Riondino, il protagonista principale, mi ha colpito per l'assoluta lucidità che ha avuto per tutto il progetto. Di Elena Radonicich ho ammirato l'istinto, Valentina Cervi è stata bravissima. E poi c'è Vitaliano Trevisan che mi ha conquistato: oltre essere uno straordinario scrittore, secondo me è nato per la recitazione. È un non-attore misterioso, tagliente, di una precisione assurda. E ha una componente intellettuale molto forte e magnetica».

Dal 14 aprile “Senza lasciare traccia” sarà nelle sale, distribuito dalla sua Hirafilm e dalla società sassarese Il Monello Film. Come nasce la collaborazione?

«Avevamo conosciuto la responsabile Grazia Porqueddu durante la proiezione a Roma del film “Perfidia” di Bonifacio Angius. In seguito abbiamo apprezzato l’ottimo lavoro distributivo che lei e Il Monello Film hanno fatto, così ci è sembrato interessante proporre una collaborazione per questa nuova avventura».

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