La Nuova Sardegna

Cronisti d’assalto e buon cinema, binomio vincente

di FABIO CANESSA
Cronisti d’assalto e buon cinema, binomio vincente

Il film sui preti pedofili candidato agli Oscar Un’inchiesta da Pulitzer che conquista il pubblico

24 febbraio 2016
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di FABIO CANESSA

Criticata, anche giustamente per programmi e scelte non troppo convincenti, la direzione di Alberto Barbera in questi ultimi anni sembra aver portato la Mostra del cinema di Venezia a instaurare un rapporto privilegiato con l’Oscar. Dopo l’incetta di statuette di “Gravity” e i premi a “Birdman” in questa edizione il titolo forte che ha iniziato la sua corsa al Lido è “Il caso Spotlight”. Sei nomination per il lungometraggio diretto da Tom McCarthy, secondo i bookmaker tra i grandi favoriti per il riconoscimento come miglior film.

In attesa di sapere come andrà, si può andare a vederlo al cinema. Da qualche giorno è infatti nelle sale. Il film racconta la storia del team di giornalisti investigativi del Boston Globe, soprannominato Spotlight, che agli inizi degli anni Duemila sconvolse la città, gli Stati Uniti e il mondo intero, con le rivelazioni degli abusi sessuali commessi su minori da oltre settanta sacerdoti coperti dai vertici della Chiesa locale, come dimostrò il coinvolgimento del cardinale Law che fu costretto a dimettersi dal ruolo di arcivescovo di Boston.

Tutto inizia con la nomina di un nuovo direttore nel luglio del 2001. Da Miami arriva Marty Baron, un ebreo nella capitale dello Stato del Massachusetts a maggioranza cattolica, che incarica il team Spotlight di indagare sulla notizia di un prete locale accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani nel corso di trent’anni. Il caporedattore della squadra investigativa Walter “Robby” Robinson, i cronisti Michael Rezendes e Sacha Pfeiffer, e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll, cominciano quindi a indagare sul caso. Via via che i giornalisti di Spotlight avanzano nelle indagini, parlando con l’avvocato di alcune vittime, intervistando adulti molestati da piccoli e cercando di accedere agli atti giudiziari secretati, emerge con sempre maggiore evidenza che l’insabbiamento dei casi di abuso è sistematico e che il fenomeno è molto più grave ed esteso di quanto si potesse immaginare.

Un soggetto forte, una scomoda verità, un’inchiesta premiata con il Pulitzer. Ingredienti di base perfetti per il filone cinematografico legato al giornalismo d’inchiesta. Ma non basta una storia importante a fare un buon film. Le trappole in agguato sono molte: cliché, retorica, prese di posizione moralistiche. Il merito del lungometraggio di Tom McCarthy (noto fino a questo momento soprattutto come regista di “L'ospite inatteso”) è quello di evitarle in modo tutto sommato convincente. La sobrietà, i toni asciutti, misurati caratterizzano la narrazione. Che nella sua semplicità lineare, senza particolari scene madri, risulta decisamente credibile e comunque coinvolgente, incalzante. Non perdendosi in possibili sotto trame (dinamiche familiari dei personaggi, storie d’amore spesso infilate a sproposito) l’attenzione si concentra tutta sull’indagine. Essenza, cuore del film che si avvale di un buonissimo cast: Mark Ruffalo è quello probabilmente più in mostra, interpretando Rezendes, personaggio simbolo della passione per la professione giornalistica. Nomination all’Oscar per lui e per Rachel McAdams, entrambi nella categoria non protagonista. Pur essendo un film collettivo il ruolo principale spetta a Michael Keaton (già giornalista in “Cronisti d’assalto” di Ron Howard) che interpreta il caporedattore Robinson e si conferma su ottimi livelli dopo il grande rilancio l'anno scorso con “Birdman”.

Un film dunque senza particolari punti deboli, che ha anche il merito di dare nuovo vigore al sottogenere dei film di inchiesta che raccontano un modo di fare giornalismo già molto cambiato rispetto agli eventi narrati (e sono passati solo quindici anni). Diventato più raro con l'informazione di oggi, con i tempi velocissimi scanditi dal web. “Il caso Spotlight” ricorda che quel giornalismo è però sempre necessario. Perché può contribuire a cambiare le cose, a migliorare la società, a dare voce a chi non ce l’ha.

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