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«Cerco l’onda perfetta ma la Sardegna è casa mia»

di Giovanni Dessole
«Cerco l’onda perfetta ma la Sardegna è casa mia»

Il sardo-hawaiiano Francisco Porcella è uno dei più grandi artisti della tavola. La sua prima volta al Poetto di Cagliari, oggi vive a Maui: «Il surf è energia pura»

22 agosto 2016
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Padre sardo, madre americana. Francisco Porcella è uno dei più grandi artisti al mondo nel cavalcare l’onda. Il surf è la sua vita, le Big Wave da 15 metri il suo pane. Sino a 13 anni è vissuto a Cagliari, poi si è trasferito alle Hawaii. Oggi ha 30 anni, vive a Maui e sarà protagonista del prossimo Garage Open nella baia della Marinedda, all’Isola Rossa.

Cos’è l’onda perfetta? Sfida interiore o filosofia di vita?

«Inizia come sfida interiore, poi provi per la prima volta la prima sensazione dell’onda che ti trasporta sul mare e te ne innamori. È la magia dell’oceano: doni di madre natura che possiamo cavalcare e ci rendono felici. Facendo surf ti innamori del mare, della potenza e della grazia dell’onda. Questa energia, a volte surreale, diventa filosofia di vita: la puoi osservare o sentire sotto i piedi, avvolto dall’acqua. La nostra vita potrebbe esser simile a un’onda: si nasce, si va avanti, ci sono dei picchi e poi si muore».

Il surf, un piccolo grande mito dell'epoca moderna.

«Oggi più che mai, come dicono in America, il surf è diventato sport “Main Stream” e sono contento di far parte di questo mondo. Essere in mare a contatto con la natura è la medicina naturale per lo stress e tanto altro. Pensare che nel 2020 a Tokio il surf sarà disciplina olimpica fa capire quanto sia diventato grande questo sport, ma è bello ricordarne le origini. Alle Hawaii, dove è stato inventato, si surfa tutto l’anno. Uomini e donne coltivano questa passione e ne fanno un lavoro: la vita è un continuo allenamento, e sono le onde a dettare il ritmo della giornata».

La prima volta sulla tavola?

«Alla quarta fermata del Poetto, era l’alba, io e mio fratello Niccolò avevamo 10 e 9 anni. Nostro padre e zio Grankio (Alberto Alberti, noto surfista cagliaritano ndr), ci portarono fra i frangenti di mezzo metro. Io e Niccolò ci siamo subito alzati, ci siamo guardati e ci siamo messi a ridere. Eravamo presi. Fare skate ci aveva insegnato l’equilibrio per stare in piedi e surfare. Quel giorno non lo dimenticherò mai, eravamo orgogliosi di aver surfato. Alle 8,30 siamo andati alla Sacra Famiglia, la nostra scuola elementare gestita dalle suore al Margine Rosso. Mi sentivo fiero di esser in classe con il sale addosso sotto il grembiule, pensavo alle onde».

È già arrivata l’onda della sua vita?

«Parecchie, ma il conto è sempre aperto. Arrivati al mio livello sei pronto fisicamente, tecnicamente e mentalmente. Ci sono posti famosi per le loro onde, ma non sempre le incontri alla loro massima perfezione e grandezza. Sai che l’unico modo per cavalcarle è essere in quel posto in un giorno speciale, quasi epico. Ti trovi dall’altra parte del globo, ma se a Tahiti è prevista la perturbazione giusta devi andarci, non la puoi perdere. Surfare l’onda gigante richiede pazienza, comporta rischi: la tempesta perfetta può arrivare una volta all’anno, ogni cinque anni o ogni dieci».

Lei è sardo-hawaiano: in che percentuale?

«Ci poris contai! La terra sarda ce l’ho nel cuore. Sono sardo nel modo di mangiare: mi piace avere l’olio buono, mangiare un carciofo crudo. E poi la pizza, il pranzo dai nonni, le pesche di San Sperate, la frutta. Certo amo anche l’avocado e tutta i frutti tropicali. Mi piace l’amore per la famiglia, lo stare assieme, cosa che alle Hawaii e in America si vive meno. Come hawaiiano mi sento a contatto con l’energia, la potenza di madre natura - Mana, in hawaiiano - dalla montagna all’oceano, forza che ricarica. Ho amici sparsi per i continenti, viaggio tanto e vivo a Maui in un ambiente internazionale: sono cittadino del mondo, colgo il meglio di ogni cultura, mi apre mentalmente».

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La gara più intensa? La più pericolosa?

La più intensa quella di Punta de Lobos, in Cile: premiava l’onda più grande della giornata, eravamo tutti molto gasati e si sentiva l’energia in acqua. Quella più pericolosa quella di Fuerteventura alle Canarie, onde che esplodevano su grandi rocce taglienti: sbagliare significava rischiare la vita. Ma a me sta a cuore la gara della Marinedda, in Sardegna, dove nel 2012 ho vinto il contest. Mio fratello i miei amici erano lì, e i ragazzi facevano il tifo sulla spiaggia, una delle gare più belle che abbia mai fatto».

Che gara è il Garage Open?

«È il miglior contest in Italia. La Marinedda è una baia eccezionale. Le onde sono fantastiche. I ragazzi stanno al mare, si divertono, ascoltano musica e guardano noi atleti che surfiamo. C’è sempre una cena la notte prima della gara, c’è sempre una festa dopo. C’è positività, lo apprezzo molto».

Surfisti di ieri, di oggi e di domani

«Tra i grandi, alcuni dei quali ora mi sostengono, c’è uno dei migliori, Big Wave Riders a Jaws Maui, e poi il Dio delle onde grandi Shane Dorian, Kelly Slater, o Greg Long e l’amico Sion Milouski, che ci ha lasciato quattro anni fa. Loro sono ancora forti. Tra le nuove leve sicuramente Leonardo Fioravanti, Roberto D’Amico e Matahi Drollet da Tahiti: spaccano. Senza contare John John Florence, il miglior surfista degli ultimi tempi».

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Il surf e la Sardegna.

«Le coste dell’Isola hanno molto potenziale, devi prendere la macchina, inseguire la perturbazione giusta e trovare il lato della costa con le onde. Grazie al maestrale tutta la costa ovest ha onde bellissime».

Quanto è diverso il mondo del surf da quello raccontato in pellicola fra “Un mercoledì da leoni” e “Point Break”?

«Un film che spiega meglio come ci alleniamo, come e perché amiamo questo mondo di tavola, mare e onde è “Chasing Mavericks”, lo consiglio».

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