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Il ’68 e la grande rivoluzione dell’Olbia

di Guido Piga
Il ’68 e la grande rivoluzione dell’Olbia

L’epopea di Pintus, Selleri e Palleddu tra Costa Smeralda, sinistra e serie C

03 aprile 2013
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OLBIA. Oh, il ’68. L'immaginazione al potere. Studenti e operai in piazza: in tutt'Europa, in quella occidentale. In quella Orientale, la piazza, se la presero i carri armati: il gelo della repressione sovietica che si abbatte sulla primavera di Praga. Sinistra lacerata, scissioni, la nascita del Manifesto, quotidiano comunista.

Che anno, il ’68. Anche per Olbia, per l'Olbia calcio. La rivoluzione, qui, non fu rossa: fu bianca. Come le maglie color purezza della squadra. Più forte di tutto e tutti, della scorrettezza degli avversari e della reticenza di chi, in quella Calciopoli, sapeva e non voleva parlare. Fino all'ultimo, fino a negare l'evidenza: per paura e per partigianeria. Perché quell'anno l'Olbia vinse il campionato a tavolino, in una triangolazione da spy story fra la città, Latina e la rivale Tempio. Ciò che non le diede il campo, glielo restituì la giustizia: l'Olbia vinse il campionato di serie D, sbarcò nella serie C. A girone unico, una super terza serie: contro Ascoli, Siena, Empoli…

Una vittoria onesta, fatta in casa, il cui ricordo è imperituro. Quella era l'Olbia di Bruno Selleri (giocatore), Palleddu Degortes (allenatore), Elio Pintus (presidente). Quello è uno dei ricordi - per alcuni il Grande Ricordo - che accompagna i bianchi verso un'altra promozione. Meno epica, meno poetica, ma pur sempre una vittoria dolce e rabbiosa: perché se l'Olbia, sabato in notturna contro il Calangianus, tornerà in serie D, sarà un riscatto forte, anche inaspettato per i tempi, dopo il fallimento dell'èra Rusconi. Una ferita che si cicatrizza velocemente come velocemente si è consumata quell'avventura, quell'illusione, che avrebbe dovuto portare l'Olbia in serie B, e invece l'ha condotta sul baratro.

Altri tempi, ormai. La storia, fatta di rovesci, si tiene insieme: nessuno più di quelli che hanno fatto risorgere i bianchi, le Vecchie Glorie, sono un ponte mai crollato con il passato, con il ’68 che portò l'Olbia dove non era mai stata prima. Ed è bello rileggerle, oggi, quelle pagine ingiallite dal tempo. Quell'Olbia così casereccia. Ruspante. Proiettata verso il futuro. Perché quella squadra, forse come mai, si è intrecciata con la città. Con quella che era, con quella che, vorticosamente, stava diventando.

I mitici anni Sessanta, anche in città. Nei quali Olbia crebbe di quasi 7 mila abitanti, con un trend fissato dall'Istat a + 37% di incremento. Un record in Sardegna, e anche in Italia. La città cominciava a mangiarsi le paludi e le piane che aveva intorno. Il suo presidente traeva forza e guadagni da una zona in continua lottizzazione, e che non a caso porta il suo nome: zona Pintus, viale Aldo Moro e dintorni. Lì compravano i terreni i pastori di Monti di Mola che avevano venduti i loro all'Aga Khan e investivano i soldi nel bene per eccellenza: il mattone. Nella conservatoria di Tempio, si trovano decine d’ atti con venditore Elio Pintus, e con acquirenti gli Azara, gli Orecchioni… E poi operai e impiegati, muratori e piloti d'aerei e hostess. Perché Alisarda era decollata, e dava lavoro come la compagnia Corridoni, e spostava il peso economico e politico dal porto all'aeroporto. Terra promessa, Eldorado, con le case che spuntavano nella frontiera impolverata della città, come in una piccola riproposizione del Far West.

Quest'anarchismo si riflesse nelle urne, nelle politiche del '68, durante la corsa dell'Olbia verso la serie C, quando quelli di Rudalza, ironia della sorte, non andarono a votare perché il Comune non aveva costruito alcune opere pubbliche. Un film rivisto. E comunque: la Dc resse, dall'alto del suo 42%. Le sinistre l'eguagliarono. Ma divise. Il Psi, perché Olbia era sempre stata socialista, si alleò con il Psdi è arrivò al 21%. Il Psiup tocco l'8 e passa. Il balzo lo fece il Pci. Sempre minoritario, con percentuali a una cifra, quell'anno raggiunse il 13%. Non era il voto terranovese, era il voto degli immigrati: dei lavoratori della Costa Smeralda, dell'Alisarda. I portuali si orientarono a maggioranza sul Psi, come sempre.

Ciò che tenne insieme quella città in tumultuoso cambiamento, sarà sociologia spicciola, fu la maglia bianca dell'Olbia. Allora un'istituzione, un rito da venerare ogni domenica al Nespoli. Un modo per rinsaldare vecchi rapporti, per conoscere (e farsi conoscere) dai nuovi olbiesi. A migliaia seguirono le gesta dell'Olbia. Soffrirono in quel maggio del ’68 quando il Latina violò il Bruno Nespoli (2-1) e l'impresa sembrò sfumata, proprio all'ultima giornata: laziali in C, bianchi battuti.

Se l'immaginazione salì al potere, Olbia ha un posto in quel Pantheon dei sogni: perché Pintus e Palleddu lottarono, Davide contro Golia, per avere giustizia, per far dichiarare il Latina, assai protetto, reo di illecito sportivo. Perché i laziali comprarono alcuni giocatori, e tra questi uno del Tempio, perché perdessero le partite. E ci volle un olbiese che giocava nei galletti, Balzano, per aprire uno squarcio in quel muro di gomma. E ci volle appunto tutta la buona volontà dei giusti, come lo erano Pintus e Palleddu, per insistere perché si facesse luce sull'oscura vittoria del Latina. E ci fu il soccorso dei cugini, infine, con il presidente Gianni Monteduro, e tutto si chiarì: perché il Tempio in cui giocava Materazzi, oggi gran capo dell'Olbia, collaborò, denunciò la combine, e l'Olbia ebbe ciò che meritava, ciò che le spettava: la serie C, il palcoscenico nazionale del calcio per una città, che allora come oggi, voleva pensare in grande.

@guidopiga

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