La Nuova Sardegna

Sassari

I rifugiati di Jdeideh salvati dal gioco e dallo sport libero

Jdeideh, cittadina della Bekaa del Nord, a 9 chilometri dal confine con la Siria. Dodicimila libanesi tra sunniti e cristiani, che condividono una terra deserta e fredda con diecimila rifugiati...

10 dicembre 2016
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Jdeideh, cittadina della Bekaa del Nord, a 9 chilometri dal confine con la Siria. Dodicimila libanesi tra sunniti e cristiani, che condividono una terra deserta e fredda con diecimila rifugiati siriani. Jdeideh è un presidio di “Terres des Hommes”. Dal 2011 segue, nelle proprie strutture socio-educative o direttamente nei campi profughi in tutta la regione dell’altopiano della Bekaa, ventimila bambini siriani rifugiati, offrendo sostegno e supporto spesso con operatori locali. Bambini scappati da casa, senza scuole, costretti a lavorare. Bambine scappate da casa, spesso costrette dai familiari a sposarsi precocemente per proteggersi dagli abusi sessuali, episodi frequenti nei campi.

In Libano l’Uisp lavora dal 2007 con Vivicittà “Run for Peace”: un anno dopo il bombardamento di Beirut sciiti, sunniti e cristiani maroniti (che difficilmente parlano tra loro) siedono al tavolo con l’Uisp per organizzare la prima stra-cittadina libanese: “Vivicittà”. Nel 2010 la stessa manifestazione coinvolge i tre campi profughi palestinesi della zona di Sidone in Libano, insieme a loro corrono 1400 bambini delle scuole della zona.

Lo sport assume un senso diverso dalla partita di calcio della serie A. Movimento, educazione e accoglienza si fondono: Terres des Hommes e Uisp si uniscono in un progetto che diventa formazione sul potenziale del gioco e del movimento come dimensione di comunicazione e di condivisione delle emozioni per gli operatori dei campi profughi siriani. Lo sport diventa esperienza motoria sostenibile che si può fare in qualsiasi spazio e qualsiasi tempo. Diventa sport libero da programmazioni precostituite, regole rigide o contestazioni arbitrali, che non necessità di scarpe nike o maglie tecniche, ma che trasforma un vecchio giornale in una palla, in un cavallo o in una mazza con cui colpire un fantoccio che mangia le proprie paure.

Per formare sul gioco bisogna ricordare agli adulti come giocare e i loro movimenti si caricano di significati affettivi, consentendo di elaborare e comunicare le proprie emozioni liberamente. Così colpendo il fantoccio gli operatori si raccontano e la ragazza con il velo si lamenta di non sentirsi riconosciuta in ciò che fa, il ragazzo libanese racconta i pregiudizi e i preconcetti che affronta quotidianamente e il padre di famiglia piange ricordando il figlio che ha perso la vista in guerra. Subito dopo tutti a ridere e ballare insieme la “dabke”. D’altronde come racconta George il traduttore «proveniamo dai fenici e come la fenice siamo abituati a risorgere».

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