La Nuova Sardegna

Sassari

«Ce l’abbiamo fatta anche per tutti gli altri»

Le testimonianze di chi ha creduto nel progetto e ora chiede continuità: speriamo che non finisca qui

13 aprile 2014
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SASSARI. In questi casi, occorre non esagerare mai. «Ne angeli e neppure diavoli», come si diceva per evitare di dare troppi meriti a chi ha sbagliato e fare lievitare la sofferenza di chi ha sopportato un grande dolore.

Una cosa normale. Il carcere non può fare miracoli, però può rispettare le persone, offrire opportunità, garantire percorsi per un rientro nella società con la convinzione che il tempo trascorso dietro le sbarre non sia stata solo una inutile punizione.

Davide Aristardo è il più giovane del gruppo di lavoro: «Quando ho visto il mio nome sul libro quasi non ci ho creduto. Però poi ho capito che quello era l’obiettivo: e allora dico che se ce l’ho fatta io ce la possono fare anche tutti gli altri. Mi auguro che serva d’esempio, che in carcere ci si possa formare, per avere un mestiere e trovare lavoro anche all’esterno».

Come Davide, anche Simone Silanos è già fuori dal carcere, ma lesta legato al progetto di archivista. «Penso a tutto quello che abbiamo fatto. E ancora quasi non ci credo. Il mio augurio è che anche altri possano fare lo stesso percorso e arrivare alla fine, così come è stato per noi».

Roberto Varone riconosce che non è stato facile. «Io durante il percorso ho perso mia madre, è stato un momento terribile. Ma avevo attorno un gruppo che mi ha aiutato a non mollare, e ce l’ho fatta. Per me questo è il punto di partenza e non di arrivo, spero che altri possano fare la stessa esperienza. Il lavoro è fondamentale per chi sta in carcere».

E continuità chiede anche Daniele Uras, perchè fermarsi ora non avrebbe senso, dopo avere imparato tanto. «Ringrazio chi ha creduto in noi, è la dimostrazione che si può fare. Anche se non è per niente facile, niente è scontato. Io la mia scommessa per ora l’ho vinta, ne sono orgoglioso».

Lorenzo Spano è il più anziano del gruppo, e lancia un appello: «Mi auguro che non finisca qui, è stata una esperienza positiva, ma non basta. Ognuno ha fatto la sua parte, altrimenti non avrebbe funzionato. Spero che chi ha il potere di farlo si adoperi per sbloccare i finanziamenti, che ci sono». E chiude con una battuta tutta sassarese: «...Senza dinà no si canta messa».

Giuliano Usala è timido, di poche parole. Emozionato di fronte alla platea, quasi non riesce a esprimere le sue sensazioni. Poi, però, prende il microfono: «E’ stato un lavoro importante, ci ha fatto tornare indietro nel tempo. Spero solo che il progetto continui, non può fermarsi qui...».

Con i detenuti, oltre a tutta la struttura del Parco di Porto Conte, hanno lavorato anche Angelo Ammirati, già direttore dell’Archivio di Stato, e Stefano Tedde che è stato un po’ l’anima di tutto il progetto, tanto che Maria Paola Soru ha detto: «Senza di lui non sarebbe stato possibile».

Tedde ha ripercorso il lungo cammino proiettando diapositive e legandole alle lettere dell’alfabeto, isolando singole storie. Come quella di Nino Vettoriani, un detenuto di 23 anni che nel 1943 rubò una pecora a un pastore sardo e venne condannato a 15 anni di reclusione. Drammatica e attuale la lettera della madre del ragazzo: «Caro figlio, a quelli che hanno rubato i milioni li fanno deputati, a te ti tengono in galera». E poi le evasioni, tante da Tramariglio. Con i fuggitivi ripresi a Sant’Orsola, un altro vicino a Oristano dopo avere camminato per giorni a piedi.

E l’omicidio dell’agente Giuseppe Tomasiello, al quale è stato dedicato il museo sulla storia della vita carceraria di Tramariglio visitato già da migliaia di persone. (g.b.)

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