La Nuova Sardegna

Sassari

Nelle celle ormai vuote il tempo si è fermato

di Gianni Bazzoni
Nelle celle ormai vuote il tempo si è fermato

Viaggio nel carcere che oggi e domani il Fai apre per la prima volta alla città I graffiti sui muri, le foto del Papa, i messaggi: «Lasciate ogni speranza»

22 marzo 2014
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SASSARI. C’è un soffio gelido che fa il giro della rotonda e sembra accompagnarti in ogni spostamento. Fino alle celle del braccio uno, aperte per la prima volta a chi non è detenuto. Sono ancora arredate ma vuote, da luglio 2013 non c’è più nessuno nel carcere di San Sebastiano, dentro la città. E colpisce il silenzio, tanto che non si può fare a meno di immaginare le voci, i rumori, anche le urla dei momenti peggiori, quelli che hanno portato il penitenziario all’attenzione nazionale con la brutta vicenda dei pestaggi. Ci sono 150 anni di storia, la storia di Sassari, tra le mura ingiallite e scrostate e la sensazione è quella di calpestare il pavimento di un territorio dove il tempo si è fermato.

Entrare nelle celle, oggi, aiuta a capire il passato: sulle pareti ci sono disegni fatti con i gessetti colorati, non hanno l’ambizione di essere dei veri e propri murales ma esprimono stati d’animo, messaggi che sono per sempre: «Lasciate ogni speranza voi che entrate». Da una parte l’immagine di Papa Francesco, dall’altra una bella donna. In giro ancora santi e donne, in un ambiente unico, quello della cella, dove mischiare sacro e profano e inevitabile. Poi disegni di pistole e fucili, dediche e firme con l’anno di nascita, e anche una segnaletica inventata con le indicazioni di Orune, Buddusò e Sassari, in cima il divieto con una pistola al centro.

Sì, fa impressione San Sebastiano. Lo dice anche Francesco Massidda, provveditore regionale delle carceri fino al 2010, un passato da direttore dell’Asinara, il penintenziario più famoso e temuto d’Italia, specie dai detenuti più famosi: «Vuoto sembra ancora più brutto – dice l’ex provveditore – è la stessa sensazione che ho provato nel visitare (dopo) il supercarcere di Fornelli. Senza le persone trasmette sensazioni strane».

E’ chiuso da circa otto mesi San Sebastiano, ma è difficile abituarsi all’idea. Se guardi dalle finestre con le grate vedi la città sezionata in quadrati e devi fare uno sforzo visivo per unire l’immagine. Di fronte ci sono le abitazioni, le case delle famiglie che hanno diviso la loro quotidianità con quella dei detenuti. Anche per loro quel silenzio è strano.

Non è stato facile per il Fondo Ambiente Italiano ottenere l’apertura di San Sebastiano. E’ vero che Bancali ha accolto la popolazione «rinchiusa» di via Roma, ma si percepisce ancora una sorta di segreto di Stato, di gelosia che non è facile da rimuovere. Alla fine, però, c’è anche la primavera di San Sebastiano, e Maria Grazia Piras, neo assessore regionale all’Industria, parla da presidente del Fai, sottolinea l’importanza dell’iniziativa, di quelle porte aperte alla città (visite guidate, oggi e domani, dalle 10 alle 18). Gianfranco Ganau, sindaco e fresco presidente del consiglio regionale, si lascia sfuggire un «finalmente» la struttura è stata dismessa. E lancia subito il dopo: «Abbiamo fatto richiesta al Ministero – dice – dobbiamo riprendere subito il percorso perché nel frattempo è cambiato il ministro. Ci sono spazi che possono tornare utili per estendere gli uffici giudiziari, ma la sfida più importante è quella di rendere vivibili gli ambienti di un carcere che non c’è più».

Sandro Roggio, architetto, è il maggior conoscitore della storia di San Sebastiano. La sua scheda ricostruisce il viaggio - dal 1857 - con l’affidamento del progetto all’architetto di Asti Giuseppe Polani, dopo il concorso bandito dal Ministero. Primo stanziamento 860mila lire, poi un aumento di spesa di 377mila lire per una verifica richiesta nel 1863 dall’ingegnere capo del Genio civile di Sassari, responsabile del cantiere.

La casa di reclusione è costruita per accogliere 340 detenuti. «Sono passati 150 anni dall’avvio di quei lavori, ma dietro quelle mura il tempo è come sospeso».

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