La Nuova Sardegna

Sassari

Perizia sul Petrolchimico: «Benzene? Eni inefficace»

di Elena Laudante
Perizia sul Petrolchimico: «Benzene? Eni inefficace»

Cinque esperti nominati dal giudice confermano che l’inquinamento è in corso Società bacchettata per una “emergenza” durata 12 anni: grave contaminazione

09 maggio 2013
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SASSARI. Le misure adottate finora per rimuovere gli agenti inquinanti dal suolo e dalle falde «non sono state idonee, a distanza di 12 anni, nemmeno a contenere la diffusione delle acque contaminate e a impedirne il contatto con il mare, che quindi è stato progressivamente inquinato». Bisognerebbe pubblicarle tutte le 518 pagine della perizia del Tribunale, per capire quanto sono compromesse la terra del petrolchimico di Porto Torres, e il mare della sua Darsena. I cinque esperti nominati nell’inchiesta penale per disastro ambientale a carico di Syndial e Polimeri (oggi Versalis), attestano qualcosa che in fondo tutti sapevano. E cioè che l’area attorno all’impianto riconducibile al gruppo Eni, compresa l’acqua che scorre nel sottosuolo, è intaccata da concentrazioni di benzene che arrivate ad essere 90mila volte superiori alla soglia di contaminazione delle acque di falda (Arpas, maggio 2011). Ma dicono pure, i consulenti super partes, che lo sappiamo da dodici anni, e che il gestore di questa prima fase di risanamento, cioè Syndial e Polimeri, hanno elaborato “misure di messa in sicurezza d’emergenza” che sono servite a ben poco. Soprattutto perché quest’”emergenza” è stata lunghissima, «inefficace e inefficiente», si legge nella relazione depositata martedì pomeriggio. Ora sulla base di questa analisi, il pm Paolo Piras dovrà prendere la sua decisione, cioè chiedere o meno il processo per otto manager sotto inchiesta. E far finire, così, sotto processo, il gigante della Chimica.

I terreni su cui insiste lo stabilimento sono risultati contaminate a varie profondità già dal 1997, all’entrata in vigore della norma sulle bonifiche. «E non furono oggetto all’epoca, né successivamente, di alcun risanamento», ricordano i consulenti. È ovvio che «le acque sotterranee provenienti da monte idraulico e quelle meteoriche, filtrando nei terreni inquinati, continuano a svolgere indisturbate la loro opera di estrazione, trasportando a mare la parte di inquinanti progressivamente lisciviata», cioè rimasta nel suolo. Fenomeno, in riferimento ai terreni sul mare, che «prosegue tutt’ora». E non potrebbe essere diversamente, perché la fonte dell’inquinamento è lì, immutata, visto che nessuno ha bonificato il suolo che è come una spugna: ha incamerato agenti inquinanti negli anni e pian piano li rilascia al mare, attraverso le falde. I periti Colombo, Sanna, Felici, Santilli e Grego, ripercorrono l’avvicendamento alla guida degli impianti a partire dal 1982, poi ricordano i primi studi di caratterizzazione e il piano di messa in sicurezza targato Eni, fino alla creazione di una barriera con pozzi per arginare l’arrivo al mare. «La fine della attività appare legata - chiariscono - a motivazioni di natura tecnologica e di mercato, non ad esito di individuazione delle sorgenti di inquinamento per la loro eliminazione o intercettazione così da impedire l’incremento continuo della contaminazione», si legge. Anche per questo la “messa in sicurezza di emergenza”, annunciata dal gestore nel 1998, divenuta operativa solo nel 2003 con la barriera, «non essendo finalizzata alla bonifica dei suoli inquinanti, non è riuscita allo scopo. Le acque nel tempo hanno continuato e continuano a trasportare gli inquinanti a mare. L’inefficacia e inefficienza delle misure adottate è anche più eclatante considerato il tempo trascorso dalla loro realizzazione come messa in sicurezza di emergenza, che proprio per la loro natura sarebbero dovute risultare - al contrario - efficaci ed efficienti, e a breve termine», chiariscono.

Quanto all’epoca dell’iniziale diffusione delle sostanze, fondamentale per ricondurre ad uno dei tanti soggetti l’eventuale responsabilità, gli esperti chiariscono che è impossibile andare a ritroso: «Il fenomeno può riferirsi a sversamenti accidentali insidiosi perché in vaste aree del sito, e soprattutto nelle zone più sensibili come quelle di contenimento di molti grandi serbatoi, manca la pavimentazione». Sul monitoraggio di questi serbatoi, l’analisi diventa quasi monito. Sottolinea che «per alcuni serbatoi, l’intervallo tra due monitoraggi successivi ha una frequenza anche di sette anni, in altri casi non si riscontra monitoraggio prima del 2009-2010, molto tempo dopo che la contaminazione del suo lo era fatto acclarato». Per dare la cifra di questa anomalia, basti ricordare quello che accade in altri impianti simili, che oggi devono ottenere dal ministero dell’Ambiente l’Autorizzazione integrata ambiente. In circa 200 stabilimenti italiani analoghi al petrolchimico, «il monitoraggio della tenuta del fondo dei serbatoi ha cadenza biennale», non supera mai i 5 anni. E per prevenire le infiltrazioni, si realizzano i doppi fondi nei serbatoi attivi. «L’unico dato certo - sintetizzano i periti - è l’assenza di azioni che abbiano nel concreto impedito la prosecuzione della contaminazione». «È ancor più grave - scrivono i periti - se si pensa che gli interventi di messa in sicurezza per rimuovere fonti di contaminazione» secondo la legge, sono tali proprio perché devono essere attuati tempestivamente. Nulla invece, è stato fatto per il suolo. «Non risulta posta in essere alcuna misura».

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