La Nuova Sardegna

la motivazione della sentenza sept

I giudici: «Cappellacci e Simeone consapevoli del reato»

CAGLIARI. «L’acquisto non presentava alcun elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa, l’operazione ufficialmente tesa al recupero di un credito non poteva produrre liquidità,...

28 marzo 2017
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CAGLIARI. «L’acquisto non presentava alcun elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa, l’operazione ufficialmente tesa al recupero di un credito non poteva produrre liquidità, semmai comportava un rilevante esborso di denaro contante»: parole dei giudici Massimo Poddighe, Roberto Cau e Sandra Lepore, scritte nella sentenza con la quale il 28 settembre dell’anno scorso il tribunale ha condannato dieci persone tra cui il sindaco di Carloforte Marco Simeone, l’ex governatore Ugo Cappellacci e l’avvocato civilista Dionigi Scano per lo scandalo della Sept, l’industria di vernici di Quartu sprofondata nel fallimento il 20 aprile 2010 e nella bancarotta. Nelle 89 pagine della motivazione i giudici vanno giù pesante nel valutare le condotte di Simeone – condannato a 9 anni – ma anche di Cappellacci e Scano nell’acquisto concluso nel 2001 della Simeone srl, un’azienda di famiglia inattiva e indebitata, da parte della Sept. Per i giudici quello «sperpero del patrimonio aziendale della Sept, senza alcun reale vantaggio» si spiega «alla luce dei rapporti tra le persone coinvolte nelle due società»: Marco Simeone era presidente del Cda della Sept, mentre la Simeone srl era amministrata dalla cugina Maria Simeone e riferibile ad altri parenti, compreso il sindaco. Secondo il tribunale l’obbiettivo dell’acquisto era solo di liberare la Simeone srl dai debiti, caricandoli sulla Sept e «in frode ai suoi creditori sociali» con un danno di 220 mila euro, «un disegno preciso del quale tutti gli imputati erano consapevoli artefici». I giudici aggiungono il racconto dell’operazione conclusa davanti al notaio, quando Simeone è presente ma si fa sostituire dai consiglieri Cappellacci e Scano, per non dover dare spiegazioni al cda sull’evidente conflitto di interessi: un’acquisto tutto interno alla famiglia. Per il tribunale «non è possibile pensare seriamente che Cappellacci e Scano fossero inconsapevoli del senso, della finalità e dei retroscena della loro iniziativa, atteso che essi, lungi dall’essere degli sprovveduti, disponevano di tutti gli strumenti culturali per apprezzare ogni profilo della vicenda». Da qui la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale e semplice per aggravamento del dissesto, che è costata a Cappellacci e Scano due anni e mezzo di reclusione. (m.l)

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