La Nuova Sardegna

l'opinione

Terreni incolti della Sardegna ai migranti? La storia insegna

di Eugenia Tognotti
L'inaugurazione della chiesa di Arborea durante la grande bonifica
L'inaugurazione della chiesa di Arborea durante la grande bonifica

L’idea di Severgnini è tutt’altro che nuova: nel corso dei secoli tanti i tentativi falliti, dagli spagnoli sino a Garibaldi

15 novembre 2015
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Nella contestata proposta di distribuzione ai migranti delle terre incolte e semispopolate della Sardegna, comparsa sul New York Times, e, quindi, destinata ad una visibilità quasi planetaria, Beppe Severgnini si è voltato un po’ troppo indietro, evocando addirittura Settimio Severo, il mondo romano e il sistema usato nella divisione delle terre conquistate ai coloni, inviati nei territori in funzione di presidio militare e insediativo.

Oltre Facebook. L’idea di rispondere all’emergenza immigrazione, consentendo a migranti e profughi, giunti sulle nostre coste, di colonizzare aree spopolate o in via di spopolamento, avrebbe naturalmente meritato qualcosa in più della rumorosa polemica, a cui ha contribuito l’onnipresente Matteo Salvini . Una discussione, non appiattita nel vorticoso girone dei post Facebook, avrebbe consentito, da una parte, di assegnare a quella proposta un appropriato rilievo nella lunga storia delle iniziative di colonizzazione in Sardegna. Dall’altra di imparare dai (tanti) fallimenti (da Montresta a Osidda, da Sarcidano all’Asinara) e dai (pochi) successi conseguiti da governi, grandi proprietari, capitalisti illuminati, uomini d’azione come Giuseppe Garibaldi, che misero in campo decine di iniziative per “riempire” le terre senza uomini, abbandonate al pascolo e all’incolto. L’innesto di famiglie forestiere in quelle terre vuote di uomini presentava difficoltà insormontabili.

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Nurra e Marmilla. Andò incontro ad un fallimento l’idea di affrontare per questa via la malaria, una delle “emergenze” che si voleva combattere allora, nella convinzione che l’insediamento umano e le coltivazioni servissero a risanare l’aria e i suoli, rompendo il circolo vizioso che dominava nelle terre di pianura. Naufragarono uno dopo l’altro gli esperimenti di colonizzazione su terreni demaniali e comunali: quello del conte Maffei, in località «La Crucca», duemila ettari di terreni demaniali nella Nurra di Sassari; e, ancora, quello tentato da capitalisti siciliani nei territori dei paesi di Ales e di Guasila, rispettivamente nei bacini mal drenati della Marmilla e della Trexenta, appendici dei Campidani. Qui la fuga o la morte per malaria dei coloni continentali pose fine all’esperimento. Né le grandi estensioni di terre incolte e abbandonate in Sardegna (ma l’esempio più clamoroso era, per la sua notorietà, l’Agro romano) offrivano opportunità di sfruttamento e valorizzazione per lo sviluppo economico del Paese dell’Italia .

I grandi flagelli. L’ipotesi di una modernizzazione delle aree marginali e del loro inserimento nell’economia di mercato si scontrava, nell’isola, con la difficoltà di insediare i coloni in aree insalubri, lontane dai centri abitati e prive di una attrezzatura, sia pur minima, di vita comunitaria. La mancata trasformazione delle condizioni naturali (siccità, malaria, dissesto idrogeologico) rendevano «poco propizio l’insediamento dell’elemento locale e scoraggiavano quello d’oltre mare a fissarsi stabilmente nell’isola», per riprendere le parole di Giulio Dolcetta, presidente della Società Bonifiche sarde negli anni Trenta del secolo scorso. Questa consapevolezza era diffusa già nei primi anni Settanta dell’Ottocento in alcuni settori dell’intellettualità tecnica sarda, contrari alla colonizzazione «guidata». E privi di «fiducia in alcuna combinazione che possa fare il Governo a colonizzare la Sardegna», affermava un economista liberale sardo, Giuseppe Pinna-Ferrà, polemizzando sull’Economista di Firenze con coloro che sostenevano che «il ripopolamento» della Sardegna con «innesti» di famiglie continentali potesse portare alla rinascita agricola e «al risanamento di territori estesi, disabitati e malsani», a cominciare «dalle località meno infelici» dei Campidani.

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Agricoltura e industria. Delle difficoltà di una colonizzazione delle vaste aree disabitate e incolte dell’isola, si rendeva ben conto un esperto «continentale» come il fiorentino conte Aventi – autore, insieme a Giuseppe Garibaldi, di uno dei tanti progetti (1869-70): «Feci più volte conoscere al Generale – ricordava nel 1871 in una lettera pubblicata dal Giornale di agricoltura, industria e commercio del Regno d’Italia – che in Sardegna, colonie veramente serie non si sarebbero potute mai impiantare, né avrebbero prospera vita, se non si partiva dalla base, che è di liberare quei luoghi dalla malaria, mediante ben studiati e regolari lavori idraulici, sbarazzando le acque stagnanti che portano miasmi micidiali, e risanare almeno i luoghi ove si volesser piantar colonie.

I progetti del Duce. Insomma, una colonizzazione non avrebbe mai potuto avere successo al di fuori di un piano simultaneo di sistemazione idraulica, trasformazione agraria e riassetto territoriale: un’opera, in altre parole, di riorganizzazione complessiva del territorio, che decenni dopo, sotto il fascismo, avrebbe preso il nome di «bonifica integrale». Quella di Arborea – dopo le grandiose opere di bonifica idraulica e agraria – rappresenterà il primo tentativo di colonizzazione davvero riuscito in Sardegna. I primi coloni arrivano nel 1926 e nel 1930 c’erano novantuno famiglie continentali, di cui trenta polesane, undici vicentine, sedici veneziane, otto friulane, dodici siciliane, due mantovane, due maremmane, impegnati a lavorare quelle terre che di lì a poco si sarebbero trasformate in un’isola di agricoltura prospera, una zona che ancora oggi è una delle aeree più economicamente solide della Sardegna.

Conoscere il passato. La storia, insegna, qualche volta anche se siamo dei cattivi alunni: la presenza di grandi estensioni di terre non è sufficiente di per sé ad assicurare che l’innesto di gruppi di migranti abbia successo, in assenza di condizioni che dovrebbero essere create dalla mano pubblica, in base a studi e piani applicati alle località, alla natura dei luoghi, alla consistenza e alle caratteristiche della popolazione immigrata.

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