La Nuova Sardegna

«Indignati, così getta fango su tutti noi»

di Felice Testa
 «Indignati, così getta fango su tutti noi»

Gli ex-colleghi della Carbosulcis raccontano la loro vita nel sottosuolo e puntano il dito contro Cani

22 ottobre 2014
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CAGLIARI. «Lavoratori.... Lavoratori della mazza...». La garrula impudicizia di Carlo Cani, furbacchione in Carbosulcis, che non ha mai lavorato in vita sua, somiglia tanto al remake dell'ombrello di Alberto Sordi nei “Vitelloni” di Federico Fellini ma, sessant'anni dopo, non fa ridere. Mette tristezza e ad Antonio Deiana, 84 anni, 22 passati in miniera, fa anche saltare i venerandi nervi. A 18 anni Deiana comincia il lavoro del minatore. Nelle gallerie di Seruci, a meno 320 metri, ci lascia la giovinezza e i polmoni e, dopo due decenni, porta a casa la pensione e la silicosi. Al telefono, la voce roca, pronuncia poche frasi infastidite. «La miniera, nell'antichità, era la peggiore delle punizioni che si potesse infliggere a un uomo dopo il remo sulle galere. In Sardegna diciamo che quello del minatore è “traballu de poni coddu”, lavoro di fatica che spezza la schiena. Ora, questo signore racconta che non ha mai fatto nulla nei 26 anni di permanenza in Carbosulcis. Come si fa a pronunciare la frase “non ho mai lavorato in vita mia”, senza provare vergogna? L'unica possibilità è che sia uno molto malato davvero, seppure i medici non siano riusciti a diagnosticare di quale malattia soffra, altrimenti non c'è spiegazione a dichiarazioni di questo genere. Mi ha fatto talmente male leggere quello che ha detto, che non volevo crederci. Non si può infangare così la miniera. Non sono solo dispiaciuto, sono incredulo». Il lavoro in miniera lo conosce bene anche Mario Zara, 65 anni, dal 1975 al 2000 in Carbosulcis. «Non voglio fare un commento sulla persona, voglio parlare in termini più generali. Nessuno entrava al lavoro per non fare nulla, ne avrebbe pagato le conseguenze. C’erano quelli che non brillavano di arguzia e venivano messi a fare lavori non particolarmente delicati, ma nessuno passava il proprio turno con le mani in mano. Dire “non ho mai fatto nulla” mi sembra un’affermazione di spavalderia, un po’ come quei giovanotti che si vantano di aver conquistato tutte le ragazze del vicinato ma sono in genere degli sbruffoni. Però, una cosa di questo tipo getta fango su centinaia di lavoratori che si spaccano la schiena tutti i giorni». Sandro Mereu, delegato Cgil in Carbosulcis, ha consegnato, a Cagliari, il caschetto dei minatori, simbolo del lavoro, a papa Francesco. «Ci sentiamo molto indignati perché conoscendo il nostro ex collega, sappiamo che è vero quello che dice. Fu uno di quelli che firmò per restare in cassa integrazione, dopo la fuga dell’Eni con 550 milioni di soldi dello Stato, e quando doveva rientrare si metteva in malattia. Però paragonare il lavoro che anche ora svolgono i minatori a un fannullone ci fa rabbrividire. Sono convinto che certe notizie in un momento molto difficile per i lavoratori non facciano che alimentare le polemiche ogni volta che si parla di Carbosulcis. I minatori non hanno fatto altro che subire le decisioni politiche delle giunte e dei governi che si sono succeduti negli anni. Il fallimento non si deve addebitare a loro ma alle politiche errate della regione sarda e del governo. Non hanno voluto che si utilizzasse il nostro carbone per produrre energia pulita e a basso costo per il polo di Portovesme e ora le industrie chiudono. Oggi, i minatori hanno chiesto alla Rsu di fare un documento su questa vicenda. Questa non è la storia dei minatori. Invitiamo la stampa a venire nel sottosuolo a vedere come si lavora e come i minatori, fanno anche oggi il loro dovere. Soprattutto, per vedere come escono dai pozzi a fine turno».

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