La Nuova Sardegna

I gatti di San Sebastiano e l’amore avvelenato di Antonina e Salvatore

di ANNA SEGRETI TILOCCA e SILVIA DE FRANCESCHI
I gatti di San Sebastiano e l’amore avvelenato di Antonina e Salvatore

SILVIA DE FRANCESCHI. Sassari, marzo 1912. Come tutte le domeniche, i detenuti di San Sebastiano possono ricevere un buon pasto dai parenti; è un via vai di piatti, ceste e vassoi con ogni ben di Dio....

28 luglio 2014
5 MINUTI DI LETTURA





SILVIA DE FRANCESCHI. Sassari, marzo 1912. Come tutte le domeniche, i detenuti di San Sebastiano possono ricevere un buon pasto dai parenti; è un via vai di piatti, ceste e vassoi con ogni ben di Dio. Anche Antonina aspetta quel giorno perché può vedere il marito Salvatore e gustare un buon piatto di pasta ben condita: verso mezzogiorno arriva l'uomo con una zuppiera avvolta in una tovaglia quadrettata, annodata a dovere per non disperdere il calore. Emana il profumo di casa e di quella libertà che per qualche mese ancora la donna non potrà respirare: è stata condannata per un furto compiuto quando era a servizio presso una ricca famiglia osilese. Si racconta che si era cucita nella sottogonna un bel po' di banconote, ma, forse tradita dalla complice, il trucco era stato scoperto e la ladra denunciata.

Antonina porta il piatto nel refettorio e annusa la pasta; ha un bel colore rosso e profuma di pecorino. Assaggia una forchettata, ma il sapore non è all'altezza delle aspettative: la pasta ha un retrogusto amaro, forse il formaggio è andato a male oppure il sugo si è irrancidito, "Custu mandhigu pro me est unu velenu" (questo cibo per me è un veleno), pensa.

Un sospetto si fa strada nella sua mente: il pensiero va a suo marito. Qualche anno prima l'uomo aveva avuto una relazione con una compaesana, relazione tanto scandalosa e sfacciata che Antonina lo aveva denunciato per adulterio; anche di fronte al paese voleva difendere la sua onorabilità; la tresca, forse favorita dalla lontananza forzata della moglie, continuava ancora, ora ne è sicura. Così Antonina avverte la guardia, che consegna la pasta al sanitario delle carceri, perché la analizzi e, nel caso noti qualcosa di strano, porti avanti i relativi esami per scoprire se quel saporaccio derivi da qualche veleno.

Il medico, dopo aver messo in bocca un pezzettino di pasta, effettivamente sente un sapore amarissimo e decide di darne un pochino al gatto di turno: all'epoca infatti, i periti utilizzavano per i loro esperimenti preferibilmente gatti o conigli. L'animale mangia tutto di gusto e si lecca pure i baffi; poi viene rinchiuso in una gabbia e tenuto sotto osservazione. Dopo una bella dormita, si mette in piedi e miagola, perché vorrebbe uscire. Nessun veleno, sicuramente è proprio il pecorino andato a male.

Passano poche domeniche e Antonina riceve "da fuori" una nuova prelibatezza: una testina d'agnello profumata e insaporita con mirto e alloro. Appena l'assaggia è costretta a sputare il boccone; questa volta il sapore amaro è troppo forte e la pietanza è immangiabile.

Viene chiamato di nuovo il sanitario che, per non rischiare sulla propria pelle, gira il piatto al solito gatto che "divora" quella razione inaspettata. Questa volta, però, succede l'irreparabile e il medico non può fare altro che assistere, impotente, all'evolversi della situazione.

Pochi istanti dopo la povera bestia comincia a lamentarsi miagolando forte, poi corre lungo le pareti della stanza, sbattendo da tutte le parti, come se non vedesse più. Si contorce e infine si irrigidisce con la testa reclinata all'indietro, nel disperato tentativo di respirare. L'agonia dura pochi minuti. È chiaro così, in maniera inconfutabile, che quel cibo è stato effettivamente avvelenato; preleva dallo stomaco del gatto una parte delle viscere, dove in genere si concentrano le eventuali tracce di sostanze tossiche. Sospettando che la testina d'agnello sia stata abbondantemente condita con della stricnina, poiché i sintomi mostrati dal povero gatto sono gli stessi che provoca quel veleno, procede ad un esame più accurato. Dai suoi studi gli è noto che la stricnina intacca il sistema nervoso e il corpo viene scosso da crisi che assomigliano a quelle epilettiche; gli arti si irrigidiscono e qualche volta la vittima perde anche la vista, come sembra sia successo al gatto. L'analisi chimica successiva non lascia dubbi: si tratta proprio di stricnina. Questa volta il povero animale è stato sacrificato alla scienza e alla verità giudiziaria.

A quel punto Antonina, conosciuti i risultati della perizia, è in grado di denunciare il fatto all'autorità giudiziaria, che apre un fascicolo per tentato omicidio; l'accusa è gravissima. Le indagini successive, e soprattutto i sospetti che la vittima designata non manca di riferire al giudice istruttore, portano ben presto a individuare il presunto colpevole o meglio i presunti colpevoli. Si viene infatti a sapere che il marito della detenuta e la sua amante vivevano nell'incubo della ormai prossima scarcerazione di Antonina che, una volta scoperto che la tresca durava ancora, non gliela avrebbe fatta passare liscia. Allora i due avevano escogitato un piano, in apparenza ben congegnato, ingenuo per qualcuno ma affidabile secondo la loro ottica, per "risolvere" definitivamente il problema; in realtà quel disegno delittuoso faceva acqua da tutte le parti, dato che tutti sapevano della loro relazione.

Se Antonina avesse mangiato quella testina d'agnello, non avrebbe avuto scampo; ma una morte del genere non sarebbe passata inosservata. E poi, come in realtà accadde, si poteva benissimo risalire a chi, quella domenica, aveva consegnato il pasto; la guardia incaricata di ricevere le pietanze, opportunamente interrogata, ricordò che gli si era presentata una bella signora sulla quarantina, ben vestita, che non ebbe difficoltà a riconoscere in una foto che gli mostrarono gli inquirenti. Il cerchio era ormai chiuso e mentre Antonina terminava di scontare la sua pena, i due amanti al contrario varcavano le porte del carcere.

Tutti i giorni di festa l'uomo cominciò a ricevere una succulenta pietanza che qualcuno di buon cuore gli faceva recapitare e che lui naturalmente non assaggiava. Anche per lui - come dottamente sottolineò in udienza l'avvocato difensore nel processo per tentato omicidio - valeva il saggio avvertimento dato da Laocoonte ai Troiani, quando li aveva sconsigliati dall'accettare il famoso cavallo di legno che secondo lui nascondeva delle insidie: "Timeo danaos et dona ferentes" (temo i greci specialmente quando portano doni).

Si racconta che per alcuni anni, quanti ne passò in carcere il detenuto, i gatti di San Sebastiano continuarono a ricevere una doppia razione proprio la domenica.

Nessuno di loro ci lasciò mai la pelle, fortunatamente: i sospetti erano infondati.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
Sanità

Ospedali, Nuoro è al collasso e da Cagliari arriva lo stop ai pazienti

di Kety Sanna
Le nostre iniziative