La Nuova Sardegna

La guerra persa di Mesina contro cimici e microspie

di Mauro Lissia
La guerra persa di Mesina contro cimici e microspie

L’ex ergastolano ispezionava la sua Porsche con un sofisticato rilevatore Ma i carabinieri l’avevano previsto e registravano comunque i suoi dialoghi

20 giugno 2014
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CAGLIARI. Prima di cominciare un viaggio sulla sua “Porsche Cayenne” Graziano Mesina prendeva precauzioni: con un rilevatore di microspie ispezionava l’abitacolo dell’auto, nel timore che i carabinieri gli stessero addosso e cercassero di carpire le sue conversazioni.

L’ex ergastolano dava il via libera all’autista solo se l’apparecchio gli forniva segnali rassicuranti, ma non sapeva che gli investigatori dell’Arma avevano previsto anche questo e si erano premuniti installando un sistema antibonifica.

Insomma: Mesina parlava con l’autista e al telefono, convinto di essere al sicuro. Invece i militari registravano tutto, parola per parola, mettendo insieme elementi fondamentali per l’inchiesta sul traffico di droga che vede l’ex primula rossa di Orgosolo imputato di una sfilza di reati, nella veste giudiziaria scomodissima del capobanda. L’udienza di ieri, con la lunga testimonianza del vicebrigadiere Giovanni Maria Vargiu - Mesina non c’era - ha dato quindi una risposta a uno degli interrogativi più diffusi all’epoca della retata che riportò Mesina in carcere, in barba alla grazia ricevuta dal Quirinale: ci si chiedeva come fosse possibile che un criminale scafato, un uomo avvezzo a muoversi con circospezione in ogni ambiente, fosse stato così ingenuo da farsi intercettare per ore ed ore, lasciando che i suoi racconti da romanzo noir finissero nei brogliacci della polizia giudiziaria.

Ecco dunque svelato l’arcano: Mesina si fidava della tecnologia, era convinto che quel rilevatore di cimici bastasse a prevenire qualsiasi intrusione tecnologica nella sua attività di trafficante errabondo.

Invece le sue conversazioni finivano sulla scrivania del procuratore della Dda Gilberto Ganassi, che in base ai movimenti di Mesina coordinava le indagini e disponeva nuove attività utili a comporre il puzzle della banda. Il testimone Vargiu ha riferito al tribunale presieduto da Massimo Poddighe la sequenza di missioni condotte da Mesina, compreso l’episodio Denanni: è il 27 marzo 2012 e dalla Cayenne arriva una conversazione ambientale tra Mesina e Giovanni Filindeu, che il gip Giorgio Altieri definisce uno dei suoi autisti tuttofare. Mesina - ha confermato Vargiu - racconta di una volta che aveva intenzione di uccidere Vittorio Denanni, l’allevatore di Chiaramonti che aveva contratto con lui un debito di 37 mila euro. «Mesina - ha raccontato Vargiu - ne ottiene ventimila andando a casa di Denanni, prendendo suo figlio e costringendolo a telefonare al padre per chiedergli di pagare subito. Il resto del debito, Mesina lo ottiene vendendo il bestiame di Denanni e incassando il ricavato. L’alternativa poteva essere tremenda, perché Mesina dice all’autista: «... ma io lo uccido per quello ... se non mi avesse visto quella notte, quello... sarebbe già morto. A quest’ora sarebbe stato sotto terra, mangiato dai vermi». In un’altra conversazione Mesina spiega, riferendosi a un altro debitore: «Bisogna fare così, bisogna acchiappare il figlio, come ho fatto una volta e lui mi ha portato subito ventimila. L’indomani, eh! Gli ho detto al figlio: chiamalo, diglielo che sta rompendo i coglioni. Gliel’ha detto e poi me l’ha passato. Gliel’ho detto: domani li aspetto. E l’indomani me li ha portati».

In apertura dell’udienza il pm Ganassi ha chiesto l’allontanamento dall’aula di Corrado Altea, protagonista di una plateale protesta perché gli è stato impedito di svolgere autonomamente un atto processuale. Si va avanti il 7 luglio con nuove testimonianze.

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