La Nuova Sardegna

Berlinguer, l'eredità scomoda di un comunista italiano

di Costantino Cossu
Berlinguer, l'eredità scomoda di un comunista italiano

L’11 giugno del 1984 moriva il segretario del Pci

11 giugno 2014
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 Il primo aggettivo che bisogna usare per ricordare Enrico Berlinguer a trent’anni dalla morte è “comunista”. Per il segretario del Pci la ragione politica dell’azione del suo partito è sempre rimasto, sino alla fine, il superamento del sistema capitalistico, più precisamente, e marxianamente, il raggiungimento di un superiore livello nel processo di civilizzazione dell’umanità, la realizzazione di un ordine nuovo in cui a definire i rapporti degli uomini tra loro e degli uomini con i delicati equilibri della biosfera non fosse più la logica del profitto.

Il secondo aggettivo che bisogna usare è “italiano”. Berlinguer era un comunista italiano, ovvero l’erede dell’elaborazione teorica e dell’azione politica di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti. Stava cioè dentro un paradigma teorico e pratico in cui il raggiungimento dell’obiettivo del superamento del capitalismo andava perseguito attraverso la conquista di un consenso di massa da costruire entro il quadro istituzionale della democrazia parlamentare. Il concetto gramsciano di egemonia e quello togliattiano di “democrazia progresiva” sfociano in maniera coerente nelle parole pronunciate da Berlinguer il 2 novembre del 1977 a Mosca nel discorso per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre: «L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non solo il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista».

Il terzo termine che bisogna usare per ricordare Berlinguer è “partito”. Anche qui nel solco gramsciano e togliattiano, il segretario del Partito comunista italiano vedeva nell’organizzazione che era stato chiamato a dirigere un organismo collettivo mai chiuso, mai settario, aperto alla società, alla cui vita era estranea qualsiasi forma di culto della personalità e di leaderismo.

Se proviamo a proiettare queste tre coordinate del berlinguerismo sull’orizzonte attuale della sinistra italiana, di tutta la sinistra italiana, risulta evidente la distanza abissale che separa due mondi. Nel Pd gli strumenti della democrazia hanno perso qualsiasi riferimento all’obiettivo di un cambio radicale di sistema. Si è compiuto un processo di “americanizzazione” che ha portato i due campi della politica, quello progressista e quello conservatore, a competere dentro il quadro di una gestione più o meno egualitaria di un assetto economico e sociale, quello capitalistico, che mai viene messo in discussione nei suoi fondamenti. Parallelamente si è affermato nel Pd un modello di partito leaderistico che peraltro ha uguali connotazioni sia a destra sia a sinistra: il consenso si conquista non organizzando dal basso un blocco di forze sociali, ma “convicendo” dall’alto un’indistinta opinione pubblica con gli strumenti del marketing e con i media. E a sinistra del Pd forze eterogenee faticano a liberarsi da un’autoreferenzialità che le riduce alla marginalizzazione della testimonianza di valore e alla sterilità politica.

Visto dal punto di vista di Berlinguer (e di Gramsci e di Togliatti) tutto questo è frutto della sconfitta storica che, nel corso di un trentennio, l’idea socialista ha subito nella battaglia per la conquista dell’egemonia. Quella battaglia l’hanno vinta altri e ricominciare è un’impresa quasi disperata.

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