La Nuova Sardegna

Dai beni confiscati un argine anti-cosche

di Pier Giorgio Pinna
Dai beni confiscati un argine anti-cosche

Intensificate le misure per frenare l’arrivo di altro denaro sporco sulle coste Maggiore vigilanza dopo gli ultimi segnali di pressioni e condizionamenti

20 aprile 2014
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SASSARI. Parola d’ordine: fare terra bruciata. C’è una posizione sola nella lotta contro le infiltrazioni delle cosche. Forze di sicurezza, associazioni che gestiscono i beni sottratti ai mafiosi, apparati d’intelligence, politici che temono shopping con denaro sporcosulle coste formano un fronte unito, compatto. E così intensificano la vigilanza. Soprattutto dopo gli ultimi allarmi sui sardi affiliati alla ’Ndrangheta e su scorrerie nel settore delle energie rinnovabili in agricoltura, allarmi lanciati da alti magistrati in campo contro le mafie. «Mafie, appunto: declinato al plurale – sottolineano gli esperti – Perché ormai non si parla solo di Cosa nostra o dei Casalesi: all’elenco delle organizzazioni più agguerrite si sono da tempo aggiunte - oltre ai dominanti clan calabresi - gang russe, georgiane, balcaniche, cinesi».

Nell’isola in questa lotta sono mobilitate associazioni come Libera di don Luigi Ciotti, le Caritas, Sardegna Solidale, la Fondazione per il Sud e altre. Di recente ha svolto un’interessante inchiesta sull’andamento di questi fenomeni e sull’inquadramento dei beni illeciti confiscati alla criminalità Transparency International Italia. «La nostra è una organizzazione non governativa che ovunque si batte contro la corruzione», tiene a chiarire Chiara Putaturo, una delle autrici del report. Uno studio di una sessantina di pagine. Con molti focus estesi all’intero territorio nazionale. E conferme incrociate sui dati del ministero e dell’Associazione beni confiscati (Anbsc) circa i risultati conseguiti grazie alla confisca di beni ai mafiosi e al loro reimpiego in chiave sociale.

Al di là dei segnali recenti sul reclutamento di malavitosi sardi, l’azione dei clan nell’isola finora si è sviluppata nel reinvestimento delle decine di milioni provenienti da operazioni illegali. L’obiettivo? Acquistare società e immobili destinati ad attività in apparenza lecite. E così riciclare il denaro della droga, della corruzione, delle estorsioni.

In questo senso, fin dagli anni ’70, avevano già parlato d’inquietanti emergenze i magistrati che indagavano sul cassiere di Cosa nostra Pippo Calò in Costa Smeralda, sulla Banda della Magliana a Porto Rotondo e su una serie di maneggi che nel Nuorese chiamavano in causa pezzi da novanta come Luciano Liggio.

Altri allarmi erano arrivati dopo il trasferimento all’Asinara e a Badu ’e carros di boss del calibro di Raffaele Cutolo. Allarmi sui rischi di pericolose connessioni, in seguito ripresi dall’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu e dall’ex capo della Dna Pietro Grasso, oggi presidente del Senato. Gli stessi Sos più di recente rilanciati da altri giudici sardi di fronte alla possibilità dello sbarco di detenuti sottoposti al regime del 41 bis nelle carceri di Bancali e Uta.

Contro emergenze vecchie e nuove, comunque, Trasparency ripropone oggi efficaci antidoti. Sveltire le procedure per la confisca e il riuso dei beni mafiosi. Ampliare il ruolo dell’Agenzia nazionale per il sequestro dei patrimoni. Modernizzare gli strumenti informatici. Attivare le risorse del Fondo unico di giustizia per far ripartire le aziende sottratte alla criminalità. In definitiva, un mix di contromisure per fare davvero terra bruciata attorno alle cosche.

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