La Nuova Sardegna

I fantasmi di Macondo

di Alessandro Cadoni

Un scrittura che si nutre di convivenza tra contrari

19 aprile 2014
3 MINUTI DI LETTURA





Rubricata sotto l’etichetta del realismo magico, l’opera di Gabriel García Márquez rischia di macerare in un indiscriminato calderone latinoamericano assieme ad altri autori, diversissimi, come Vargas Llosa o Amado. Non nasce certo ora il ragionamento su un autore sul quale s’è riflessa, nel corso degli ultimi cinquant’anni, l’ammirazione planetaria di pubblico e critica. E però la ricorrenza di tale etichetta richiede un piccolo spazio.

Con Márquez scompare un gigante, tra gli ultimi, della narrativa del Novecento: e forse l’ultimo, in quel secolo, ad aver creduto sino in fondo al romanzo come dispositivo per la pura narrazione. Parlo di dispositivo, sì, ma vaccinato, beninteso, da una tradizione che aveva già digerito l’Ottocento filtrandolo attraverso i moduli, per così dire, particellari di un Faulkner, citato, non a caso, in quanto riconosciuto maestro dell’autore di «Cent’anni di solitudine». Per avvicinarci ancora al problema: dal suo romanzo più celebrato, del 1967, sino all’ultimo, «Memoria delle mie puttane tristi» (2004), passando per prove diversissime tra loro come «L’autunno del patriarca» (1975) e «L’amore ai tempi del colera», si snoda una geografia letteraria, quella della Colombia caraibica, sì fuori dal tempo, eppure di potente oggettività. Dov’è il realismo, e dove la magia, nella Macondo della saga dei Buendía?

Ha scritto ieri Alberto Manguel («Repubblica») che nei due termini, in Márquez, non vi è dicotomia, semmai coesistenza. Come a dire che in Zola potevano coesistere verità fattuale e metafisica. Scrisse Pasolini, in una sua stroncatura di «Cent’anni di solitudine», che a Márquez mancavano le qualità del grande mistificatore, quelle, per dire, di Dante o di Borges. Sfocato, certamente, l’intervento di Pasolini, che peraltro coglieva un altro dato interessantissimo del romanzo, e poi di tutta la produzione dell’autore, cioè una “funzione cinema” che vi si agitava sotterraneamente. Sfocato, ma capace di orientare verso la prospettiva più interessante, cioè quella del dialogo tra visibile e invisibile: tra personaggi in carne e ossa e spettri. Nella scrittura di Márquez, insomma, agisce la forma della sceneggiatura, vale a dire un segno grafico che attende la sua reintegrazione, con l’immagine, nel mondo dei corpi solidi.

Ecco: anche qui si parla di coesistenza di contrari solo apparentemente inconciliabili, come fantasia (magia) e realtà. In questo senso, Márquez sapeva farsi anche narratore storico: non più innestando nella verità la finzione, ma fondendole, piuttosto, in un ibrido di adesione alla fisicità e di presenze spettrali (Melquíades, Prudencio ecc.). Le pagine sull’arrivo del treno a Macondo – come quelle sul cinematografo – sono emblematiche: quella modernità che irrompe nella vita “preistorica” si scontra con la diversa foggia di magia cui sono abituati gli abitanti del villaggio.

E lo sguardo straniato che consentirebbe loro di accettarli, penso specialmente alle immagini in movimento, come nuova realtà dovrebbe corrispondere a quello attraverso cui gli europei debbono guardare all’America Latina, accettarne la presenza «fantasmatica», come Márquez stesso ebbe a scrivere nell’82 nel suo discorso all’Accademia di Svezia.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
Sanità

Ospedali, Nuoro è al collasso e da Cagliari arriva lo stop ai pazienti

di Kety Sanna
Le nostre iniziative