La Nuova Sardegna

Omicidio di Gavoi, parla la madre di Pierpaolo Contu: «Mio figlio è stato incastrato»

di Valeria Gianoglio
Omicidio di Gavoi, parla la madre di Pierpaolo Contu: «Mio figlio è stato incastrato»

La mamma del giovane condannato a 16 anni: «È stato incastrato: ha subìto pressioni e minacce. La verità è un’altra e verrà fuori»

27 febbraio 2014
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INVIATO A GAVOI. «Quella mattina di un anno fa? E come potrei dimenticarmela? Ricordo che erano le 8 meno un quarto, ero a casa e ho sentito che qualcuno bussava al vetro della cucina, che dà sulla strada. Era Pierpaolo. Mi ha detto “Mà, non posso più andare in officina: c’è qui la polizia, mi hanno detto che devo andare in commissariato, ma stai tranquilla, faccio in fretta”. Da allora, purtroppo, non l’ho più visto libero. E tutt’ora lo vorrei gridare, che dentro, in carcere, per la morte della povera Dina, c’è la persona sbagliata. Perché il Dna trovato nel garage non è di mio figlio, che se l’era fatto prelevare spontaneamente qualche mese prima ed è risultato non compatibile. E nessuno si preoccupa più di sapere di chi è. Hanno voluto chiuderla qui: trovare un colpevole che fa comodo a tutti. Ma la verità vera è un’altra e noi vogliamo che venga fuori, anche per la memoria di Dina Dore».

«L’ho guardato negli occhi». Un bel fuoco che sfrigola nel camino della cucina, fuori mezzo paese che sta ultimando i preparativi per il Carnevale. Seduta su un piccolo sgabello Giovanna Cualbu, quando parla del figlio, ha lo sguardo, la voce, le movenze, di una mamma ferita nel profondo. Di una mamma che sa, «anche perché l’ho guardato negli occhi», che no, non è stato il suo Pierpaolo Contu, la sera del 26 marzo 2008, a uccidere nel garage di via Sant’Antioco la sua compaesana Dina Dore. Mentre per il giudice del primo grado, Antonio Minisola, che recentemente lo ha condannato a 16 anni con il rito abbreviato, tutti gli indizi convergono su di lui. E poi c’è la testimonianza del superteste, Stefano Lai, che lo accusa.

«È stato incastrato». Mette la caffettiera sul fuoco, Giovanna Cualbu, ogni tanto, con i suoi occhi chiari, butta uno sguardo verso la finestra, e racconta. Racconta il suo anno di dolore. Da quando, il 28 febbraio dell’anno scorso, il suo figlio più piccolo è stato portato in cella, nel carcere minorile di Sassari, con l’accusa di essere il killer di Dina Dore. «Nessuno – dice Giovanna Cualbu – nessuno può capire cosa voglia dire avere un figlio in carcere e sapere, avere la certezza, che è innocente. Che è stato scelto come vittima, come colui che si doveva addossare le colpe di un omicidio così tremendo. Pierpaolo ha subìto pressioni, minacce. È stato tradito, persino da chi, come Stefano Lai, gli è stato amico per così tanto tempo, e insieme hanno trascorso tanti anni felici».

«Voleva entrare nell’Esercito». «Sia Pierpaolo, sia Stefano – racconta – volevano entrare nell’Esercito. Era il sogno di mio figlio, sin da piccolo gli sono sempre piaciute le divise, non è mai stato come certi ragazzi che invece ne sono allergici. Pensa che a Carnevale si mascherava spesso da poliziotto. Lo vedi? Lo vedi qui in questa foto? La domanda per entrare nell’Esercito, poi, l’aveva anche fatta. Un amico ci aveva detto che con il fisico che aveva, Pierpaolo aveva buona possibilità di riuscire ad entrare. Ma l’unico problema che glielo ha impedito è che purtroppo non aveva il diploma, perché dopo le Medie aveva deciso di non continuare gli studi e di andare a lavorare insieme al padre, nell’officina, a fare il saldatore. Va bene, non avrà studiato, mio figlio, ma ha sempre lavorato sodo, ha fatto davvero di tutto: muratore, operaio, lavori di campagna, e poi ha continuato a fare il lavoro del padre. E non è mai stato un ragazzo che mi ha dato problemi: non ne faceva, cazzate, Pierpaolo. Aveva i suoi amici, la sua ragazza, le sue feste. Un ragazzo solare e generoso, davvero».

«Avevamo paura». Una vita come tante, insomma, che comincia a incrinarsi il 2 novembre del 2012.

«Fino a quel giorno – dice Giovanna Cualbu – Pierpaolo non era mai stato chiamato in commissariato, né aveva avuto alcun segnale di indagini o altro. La sua vita scorreva tranquilla. Certo è che, dopo la morte della povera Dina, aveva continuato a restare vicino anche a Francesco Rocca. Le sue amicizie, il suo lavoro, niente, insomma, era cambiato. Il 2 novembre 2012, insomma, ci cade il mondo addosso. Stavamo cenando, quando arriva mio figlio Giandomenico e mi dice “Mà, non aspettare Pierpaolo, ché dalle 15 è in commissariato”. Ho aspettato, poi, quando ho visto che alle 10 di sera ancora Pierpaolo non era tornato, sono andata in commissariato a vedere. Poi, Pierpaolo è tornato e mi ha detto che lo stavano sentendo per la morte di Dina, e che lui aveva deciso di dare spontaneamente il suo Dna, e che da lì non se ne sarebbe andato, se non glielo avessero prelevato. Perché lui non c’entrava niente. Noi, prima di novembre, non sapevamo niente, di questa storia. E da quel momento, quando è venuto fuori tutto, e Pierpaolo ci ha raccontato di aver subìto fortissime pressioni per addossarsi le colpe dell’omicidio di Dina, il nostro unico errore è stato quello di non raccontare subito agli inquirenti di queste pressioni. Ma avevamo paura, a posteriori è facile dire che abbiamo sbagliato. Certo è che da novembre 2012 a febbraio 2013, quando Pierpaolo è stato arrestato, nessuno si aspettava il precipitare degli eventi».

«Giustizia per Dina». «Ma tutt’oggi – ripete Giovanna Cualbu – anche dopo la condanna a 16 anni, né io, né mio figlio, né la nostra famiglia e tutte le persone che ogni giorno vengono qui da noi per starci vicino abbiamo mai smesso di sperare nella vera giustizia. Lo sai cosa mi dice Pierpaolo ogni volta che vado a trovarlo? Si preoccupa per me, mi dice “Mà, stai tranquilla, ne uscirò”. Uscirà la verità, deve uscire. E io me lo auguro, che almeno in appello, questa verità esca fuori, che emergano le pressioni. Io vado avanti, perché questa non è giustizia. Nemmeno per la povera Dina».

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