La Nuova Sardegna

La burocrazia dell’orrore Fine totalitaria dell’umanità

di Gianni Olla
La burocrazia dell’orrore Fine totalitaria dell’umanità

“La banalità del male”, un’agghiacciante cronaca della genesi dela Shoah

01 febbraio 2014
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Di notte, in una strada di campagna, un uomo scende da un autobus. Viene superato da un camion e dal cassone scendono due uomini che lo avvicinano. Così si apre il film “Hanna Arendt” di Margarethe Von Trotta, proiettato per soli due giorni in un’unica sala cagliaritana, che vale la pena citare, la Cineworld. Il film racconta un episodio particolarmente importante della vita della studiosa ebrea tedesca citata nel titolo: la sua partecipazione, nel 1961, come inviata del periodico “liberal” New Yorker, al processo contro Adolph Eichmann, che si tenne a Gerusalemme.

La banalità del male.

Le cronache giudiziarie confluirono poi nel celebre “La banalità del male”, il suo testo più celebre e controverso. E, appunto, la prima sequenza sommariamente descritta in apertura, ricostruisce la cattura del criminale nazista, in Argentina, da parte dei servizi segreti israeliani.

Ma l’invisibile Eichmann dell’esordio – per scelta esplicita della regista – non si vede neanche nelle due ore successive se non come vero personaggio del documentario “Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno”, girato nel 1996 da Eyal Sivan e Rony Brauman sulla base delle riprese televisive (500 ore) del processo, e utilizzato dalla Von Trotta all’interno delle sequenze che ricostruiscono lo stesso dibattimento giudiziario. All’inizio del film, la Arendt è già a New York, docente in una prestigiosa università. Vi è arrivata nel 1940, reduce da un esilio forzato in Francia, e poi da un fortunoso visto per gli Stati Uniti che la sottrasse ad un campo di concentramento. Nel 1961, quando si accinse a lavorare sugli atti del processo di Gerusalemme, aveva già all’attivo il monumentale “Origini del totalitarismo”, i cui capitoli finali sono dedicati ad un’analisi parallela dei nazismo e del comunismo staliniano, accomunati, secondo la studiosa, dalla spersonalizzazione tramite un terrore che invade anche gli spazi privati e finanche la mente dei cittadini.

Chi non si è sporcato le mani.

In quel testo, rimosso per quasi quarant’anni, ci sono appunto le radici del successivo “La banalità del male”. Senza uno stato che trasforma i suoi cittadini in numeri e automi non ci sarebbero gli Eichmann, ovvero i commessi viaggiatori della Shoa, che potevano a ragione vantarsi di non essersi sporcati le mani con omicidi e torture, pur sapendo che i loro atti burocratici avrebbero contribuito all’uccisione di milioni di persone. Ovviamente, un’opera di finzione non può “novellizzare” tutte le discussioni e le teorie. Così il film, complesso e criptico per una buona mezz’ora – almeno per chi non conosce la biografia della Arendt – si prende ampi spazi poetico/memoriali visualizzando il rapporto sentimentale della giovane studentessa con il suo maestro Martin Heidegger, filosofo tra i più importanti del Novecento e, per restare in tema, vero lestofante, iscritto al partito nazista per puro carrierismo, che non osò parlare in difesa dell’amante, quando lei fu accusata di anti nazismo.

Nell’immediato dopoguerra, al contrario, la Arendt si spese in sua difesa di fronte alle commissioni per la denazificazione. Il cuore drammaturgico della pellicola, interpretata da Barbara Sukova, attrice che ha lavorato spesso non solo con la Von Trotta, ma anche con Fassbinder e persino con Michael Cimino, sta però, ovviamente, nel terribile conflitto che si apre tra la studiosa e le comunità ebraiche di tutto il mondo, a New York come a Gerusalemme, finendo per coinvolgere anche gli amici più cari. La prima colpa di cui fu accusata fu appunto quella di non aver riconosciuto in Eichmann il Mostro sanguinante e demoniaco che serviva alla legittimazione del giovane stato di Israele. Del resto, il basso profilo dell’accusato colpì tutti gli inviati, compreso il nostro Giorgio Bocca. Il secondo, anche più grave, è l’aver scritto che i consigli ebraici, nominati dai nazisti nei paesi occupati, furono corresponsabili, in tanti casi, delle deportazioni, dovendo compilare le liste da consegnare agli aguzzini. Ma, se la prima accusa era grave sul piano morale e religioso – può un uomo non avere coscienza? – la seconda è ben documentata proprio da “Uno specialista”, che mostra molti sopravvissuti ai campi di sterminio che interrompono le testimonianze dei responsabili dei consigli ebraici accusandoli di aver mandato a morire i loro parenti.

Oggi quel libro e quella formula, “La banalità del male”, è diventata quasi un marchio per capire la deriva dell’umanità. Persino Zygmunt Bauman ha intitolato un suo saggio del 1989, “Modernità e Olocausto”, attribuendo i massacri ad una sconcertante impersonalità della burocrazia.

Complici e carnefici.

Vale però la pena riportare anche le parole di Claude Lanzmann, che considera la teoria della Arendt una vera idiozia. Lanzmann, ebreo francese, è l’autore di “Shoa”, dieci ore di cinema straordinario e scioccante sui massacri nazisti. Il nuovo lavoro dello studioso si vedrà nelle prossime settimane. S’intitola “L’ultimo degli ingiusti” e riporta la testimonianza filmata del rabbino di Vienna, capo del consiglio ebraico: Benjamin Murmelstein. Costui fu appunto accusato di collaborazionismo e non fu mai gradito neanche in Israele, visto che proprio al processo Eichmann fu spesso evocato dai sopravvissuti e non in maniera lusinghiera. Lanzmann ribalta il giudizio storico: Benjamin Murmelstein salvò migliaia di ebrei, trattando proprio con il “demone” Eichmann. Ovviamente la salvezza di alcuni significava la morte di altri e qui si ritorna al quesito della Arendt.

Dove stanno il bene e il male, in un mondo distorto da un “dover essere” così terribile e così banale? Forse aveva ragione Carl Gustav Jung che definì il nazismo un’epidemia psichica. Ma come tutte le epidemie, periodicamente, anche oggi, si ripresentano a chiedere il conto all’umanità.

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