La Nuova Sardegna

“Il filo della pietra” Nineddu alla scoperta del mestiere di vivere

di Bastiana Madau
“Il filo della pietra” Nineddu alla scoperta del mestiere di vivere

Torna in libreria a distanza di quarant’anni, riveduto dall’autore, il romanzo sulla vita di uno scalpellino

09 maggio 2012
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di Bastiana Madau

Sono tanti i narratori sardi, a partire da Grazia Deledda, che definiscono come sublime il paesaggio dell'isola, sublime come solo sa esserlo il "regno della pietra" (così la Deledda in Tentazioni). Pietra, perda, preda: è un'immagine, una evocazione a cui essi sembrano tradizionalmente e intimamente legati. Di pietra è l'isola che li ha generati, da cui derivano i suoi artifici più maestosi - dai nuraghi ai menhir - e da cui provengono la miriade delle opere che hanno segnato la storia della sua letteratura. E la natura taciturna e dura della pietra sembra essersi identificata nei personaggi che le popolano, i cui volti spesso, non a caso, sembrano essere stati scolpiti. Ma se per alcuni autori la pietra è inscritta nel mito alimentato dalle magnifiche tracce dell'artificio umano nel suolo della terra sarda, e se per altri, più recentemente, assurge a metafora che da esterna si fa interna al corpo per farsi dolore, patologia, Zizi la evoca e la racconta in senso proprio, in tutta la sua pesantezza materica e la sua durezza. Alle caratteristiche fisiche della materia allude metonimicamente, già dal titolo, Il filo della pietra, pubblicato per la prima volta nel 1972 e qui riedito con una formula assolutamente nuova, voluta dall'Autore, che lo ha riccamente annotato rivolgendosi alle giovani generazioni, indicando quei "nessi" che impediscono ai "ricordi di ragazzo" di diventare "un'ossessione" (come ebbe già a scrivere ne Il ponte di Marreri, 1984).

La pietra qui è lavoro, fatica, massa bruta e cava patita dal padre di Nineddu, il protagonista della storia, e dagli altri spaccapietre che accendono "scintille su quarzi di granito", aprendo "montagne di buio", per conquistare il senso del proprio lavoro ("Compare Franzì, guardate come sono belle le pietre spaccate con rabbia"). Ma nulla è lasciato al caso in Zizi, e già nel titolo colpisce che la parola "pietra" sia preceduta da un'altra che evoca una natura totalmente diversa: "il filo". Il filo della pietra. Ha dunque la pietra un filo? Può essere filata? Tessuta? Trasformata in filigrana? Raccontata? Ricorda il filo d'argento delle janas tessitrici, i muri di filo di Maria Lai. La pietra moderna, come dire la narrativa moderna, per Bachisio Zizi, deve avere un filo, un nucleo di verità da cui dipanare il racconto, da subito, già da questo bellissimo romanzo di formazione, che dalle esperienze di vita - a partire dalla pietraia di Coccorrovile conosciuta e patita da bambino - saprà sempre ricavare una lezione che si tradurrà in spunto di poetica e narrazione anche in tutte le opere successive.

Così il libro racconta la storia di un ragazzo che sogna di spaccare le montagne, di diventare uno scalpellino bravo e apprezzato. Cocorrovile, vicino a Sant'Efisio, a 7 chilometri da Orune, tutti i giorni a piedi, andata e ritorno, cava, silenzi ancestrali, "orrida poesia", uomini che picchiano come disperati sui massi, e il paese, arroccato su una altura battuta dai venti, con la gente che impreca in silenzio e prega cantando, la madre che lo ama di un amore assoluto, i fratelli: sono i mondi di Nineddu. Poi la guerra come rimedio alla disoccupazione e alla fame. Nineddu lascia la cava di Orune, il suo paese, la famiglia, e incontra altri luoghi e miniere: Carbonia, altri uomini del fare, che alternano umanità e crudele disumanità nei confronti di quel ragazzo che scruta la realtà con occhi colmi di stupore. Nineddu si guarda intorno e si dispera perché non riesce a trovare il nesso delle cose, il filo della pietra. Torna al paese, ma suo padre, per una ferita riportata nella guerra di Spagna, dove si era arruolato per fame, non potrà più insegnargli il mestiere di scalpellino. Nineddu capisce finalmente che da solo dovrà apprendere il mestiere. Come i figli delle famiglie benestanti - che all'epoca erano gli unici a potersi concedere il lusso degli studi -, Nineddu, poverissimo, riuscirà ad andare a scuola e apprenderà tanti dati, ma gli insegnamenti che si porterà dentro saranno ancora quelli appresi fra i tagliatori di pietra disumanizzati dalla miseria, o, in seguito, nel mulino-pastificio, a Nuoro, dove andrà a lavorare come imballatore di spaghetti. Nomi, volti e corpi di una umanità dolente, disfatta dalla fatica, si affollano anche in questo punto del racconto. Ancora il duro magistero di apprendimento del "mestiere di vivere": nella federazione dei fasci, davanti alle prepotenze lunatiche dei gerarchi.

Il desiderio di conoscere scuote come una febbre insaziabile e il protagonista si tuffa sui libri, ma ne rimane quasi sgomento perché le sue inquietudini aumentano, si fa pressante la necessità di comprendere il senso delle esperienze. E quando, in epilogo, egli spinge lo sguardo oltre i tetti delle casupole di Nuoro, vede una realtà immobile, fatta di "colli riarsi" e "monti alti", che ancora limita gli orizzonti a cui il ragazzo aspira.

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