La Nuova Sardegna

Gli autori italiani non sono più capaci di raccontare la vita

Una locandina del film «Amarcord»
Una locandina del film «Amarcord»

15 gennaio 2012
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Le cose appassiscono. Esistono momenti grandiosi e momenti medi. Il cinema italiano del secondo dopoguerra, per esempio, esplose con fragore perché c'erano uomini capaci di raccogliere dalla miseria più completa. Crearono un universo imprescindibile per i cineasti di tutto il mondo. Io amo le immagini che hanno stile; amo il racconto con un profumo, con una qualità, come la pittura, come i quadri di Piero della Francesca.  Oggi - senza dubbio - ci sono molti giovani di valore, ma il loro intervento stilistico risulta troppo evidente e non muove dalla materia stessa del narrare.  Non viviamo una fase semplice con tutta questa tecnica: forte, robusta, quasi invadente. Credo che dovremmo tornare a una certa povertà. Non posso più sentir parlare di film troppo difficili da realizzare o di costi troppo elevati da sostenere.  Servirebbero cose più modeste, ma più ricercate. Bisognerebbe essere animati dalla voglia di regalare frutti profumati.  A me sono sempre piaciuti i film fatti bene. La vera differenza tra il cinema d'un tempo e quello attuale è che prima c'era eleganza e la fantasia muoveva direttamente dalla realtà. Oggi si girano film su grandi temi, su problemi complessi, cercando di conferire uno stile, ma è come se tutto procedesse dalla testa.  Ho visto alcune scene di «Terraferma» di Emanuele Crialese e quel tuffo dalla barca mi è parsa un'invenzione. Una volta, nel cinema, le cose vivevano - con naturalezza - momenti poetici di stile, attualmente - invece - domina la volontà di essere fantastici...  Un «Amarcord», sarebbe sempre la stessa cosa. Sarebbe un... amarcord. Racconterebbe qualche cosa accaduta prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse non bisognerebbe neppure pensare all'amarcord, perché la base del cinema - in fondo - è sempre la stessa.  La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo a chiederci «Perché siamo al mondo?», «Chi siamo?». Anche una piccola storia d'amore può essere una cosa stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di Tarkovskij: all'incontro tra padre e figlio in «Solaris». Il figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profondo, al di là dell'atmosfera, rischiando la vita, e il povero padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe stato l'incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi, quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo o di falso: nessuna forzatura dell'immaginazione. Il padre apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio e abbraccia le gambe del genitore, sommità d'affetto innanzi a lui. È una scena piena di naturalezza eppure risplende di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare.  Adesso guardo la pioggia. Prima c'era il sole, adesso tutto è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi verrà a trovarmi e attendo. Quest'attesa è già un film ed è l'attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione, con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice «Buongiorno, parliamo di cinema?». E va bene così.

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