La Nuova Sardegna

La Sardegna nel Risorgimento, due nazionalismi in lotta

La Sardegna nel Risorgimento, due nazionalismi in lotta

La relazione al convegno di cagliari dello storico e scrittore Luciano Marrocu

06 dicembre 2011
5 MINUTI DI LETTURA





Pubblichiamo una parte della relazione dello storico e scrittore Luciano Marrocu al convegno su «La Sardegna nel Risorgimento» che si è tenuto a Cagliari durante lo scorso week end, per iniziativa delle Università di Sassari e di Cagliari. di Luciano Marrocu Tra gli anni Venti e gli anni Quaranta dell’Ottocento, in Sardegna, scrittori e intellettuali furono collettivamente impegnati in un largo movimento di studi rivolto a sottrarre all’oblio la storia e la cultura del popolo sardo. Che si trattasse di un impegno collettivo era chiaro a tutti loro, anche a chi come Giuseppe Manno si considerava il caposcuola di quel movimento.

Da Torino, dove si era conquistato una posizione invidiabile nella corte sabauda, era prodigo di consigli nei confronti dei colleghi rimasti nell’isola, invitandoli costantemente alla prudenza, una qualità da lui sempre praticata e che aveva molto a che fare con le sue fortune personali e politiche. Prudenza aveva mostrato nella «Storia di Sardegna» (pubblicata nel 1825-27) evitando di fornire un’interpretazione in chiave nazionale sarda della natura dei Giudicati e preferendo ipotizzare alla loro origine una investitura papale. Misurandosi poi, circa vent’anni più tardi, con la «Sarda Rivoluzione», non aveva nascosto come le sue convinzioni e lealtà politiche lo portassero lontanissimo da qualsiasi interpretazione nazionale di quei fatti. Una rivoluzione, quella guidata da Giommaria Angioy, odiosa e inutile: odiosa perché odiosa, come tutte le rivoluzioni; inutile perché il feudalesimo, per abbattere il quale si era versato tanto sangue, «una sola parola del nostro saggio sovrano bastò poi ad abolire». [...] Un percorso diverso quello degli scrittori e studiosi sardi della generazione successiva, come Pietro Martini, Vittorio Angius, Pasquale Tola, Giovanni Spano, Giovanni Siotto Pintor. Diversamente da Manno che aveva mosso i suoi primi passi nel clima invelenito della reazione antiangioiana, avevano intrapreso le loro carriere professionali e letterarie nei meno arcigni anni Venti e Trenta. Negli anni Venti, Giovanni Spano e Vittorio Angius erano stati ordinati sacerdoti, Pasquale Tola e Giovanni Siotto Pintor erano diventati magistrati. Quanto a Pietro Martini, il suo percorso professionale era stato più accidentato: funzionario della Segreteria di Stato sino ai quarant’anni, si era poi dimesso per entrare come impiegato nella Biblioteca Universitaria di cui era diventato direttore nel 1844. Tutti avevano pubblicato i primi importanti studi relativi alla Sardegna nel corso degli anni Trenta. Studi di storia soprattutto, segnati da una profonda emozione alla scoperta del passato sardo. Colpisce, in tutti loro, la coesistenza di un senso di identità patriottica rivolto sia alla Sardegna sia all’Italia, senza che questa coesistenza avesse il minino bisogno di essere giustificata. [...] Gli studiosi sardi della «Rinascita» ottocentesca, avendo ereditato dalle generazioni precedenti il linguaggio tradizionale del patriottismo di antico regime, si dedicarono, con successo, ad arricchirlo. Quanto al nazionalismo italiano, si può dire vi si imbattessero nel corso del loro cammino verso i modelli culturali, d’impronta genericamente liberale, di un ceto intellettuale italiano ed europeo a cui aspiravano con forza ad appartenere. [...] Tra i due fu quello italiano, collegandosi a un movimento politico, ad adottare le pratiche e il linguaggio del nazionalismo moderno, ad essere cioè più assertivo. Ciò non significa affatto che avesse radici più profonde e che la sua pretesa di essere il frutto naturale di una precedente comunità di lingua e cultura fosse più fondata. [...] In genere i due nazionalismi procedettero separatamente, anche se come abbiamo detto non furono mai in guerra, almeno nel corso dell’Ottocento. Più raramente provarono a fondersi in un discorso comune. «Cunservet Deu su Re», l’inno composto da Vittorio Angius, è un esempio di questo tentativo, basandosi sulla celebrazione, nella lingua e con i colori della tradizione, dello speciale legame tra i sardi e la Corona. Più consistente l’esempio rappresentato dalle cosiddette Carte d’Arborea, un gigantesco falso che tenne banco in Sardegna tra il 1845 e il 1870. Visti alla luce della tradizione storiografica e in particolare dell’opera del Manno, i falsi d’Arborea debbono essere considerati, prima di tutto come una risposta alle insufficienze di questa tradizione storiografica. Laddove Manno aveva negato l’origine autoctona dei Giudicati, i falsari d’Arborea, inventando la figura di Gialeto, capo di una rivolta anti bizantina e primo Giudice, diedero a questa origine i tratti di una epopea nazionale.

Anche se estrema e paradossale questa risposta rivelava speranze e motivazioni di tutta una generazione di studiosi, da Martini a Spano, da Angius a Siotto Pintor. Metteva tra l’altro in luce il loro scarso interesse per una caratterizzazione categorica della propria identità culturale. Nella Sardegna giudicale immaginata dalle Carte, i confini tra il mondo dell’italiano e quello del sardo erano ancora indistinti e non pareva necessario che tra le due culture si arrivasse a una definitiva resa dei conti. Nella corte di Eleonora raccontata dalle Carte si scriveva in sardo, latino e italiano ed era stata la Sardegna - non la Toscana o la Sicilia - la culla del volgare letterario italiano. C’era tuttavia un elemento di irrealismo in questa aspettativa di poter agire indisturbati tra due mondi. Essa non teneva conto delle distanze crescenti che la modernizzazione frapponeva tra culture egemoniche, standardizzate, sostenute centralmente da un apparato statale, garantite dalla scuola e culture periferiche forti solamente di una pratica quotidiana in larga misura irriflessa.

Le Carte d’Arborea nacquero dall’illusione che quelle distanze fosse possibile azzerarle con un colpo ben assestato. Che si trattasse di un’illusione fu definitivamente chiaro con la sentenza espressa dall’ Accademia di Berlino, che giudicò le Carte un falso pasticciato e volgare. Anche prima di allora però il ceto intellettuale isolano aveva trovato da parte degli studiosi continentali una debole attenzione nei confronti del suo tesoro: la storia e la cultura sarde. Da ciò la convinzione che, qualsiasi idea fosse venuta dalla Sardegna, essa non sarebbe stata debitamente valorizzata nella penisola. Così all’insegna del vittimismo e della frustrazione, si compiva l’esperienza d’esordio dell’intellettualità sarda sulla scena culturale europea.
In Primo Piano
Tribunale

Sassari, morti di covid a Casa Serena: due rinvii a giudizio

di Nadia Cossu
Le nostre iniziative