La Nuova Sardegna

Oristano

Quando l’aragosta di Bosa era un piatto destinato ai poveri

di Alessandro Farina
Quando l’aragosta di Bosa era un piatto destinato ai poveri

Oggi una delle prelibatezze della rinomata cucina locale è prerogativa di portafogli ben forniti Dalle casse sommerse degli allevamenti all’Isola Rossa alle zone di ripopolamento odierne

20 gennaio 2016
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BOSA. Il tema è stato riportato d’attualità nei giorni scorsi, per gli insondabili meccanismi che regolano i flussi dei post sui social network. E così, per effetto di un articolo pubblicato sul un blog addirittura quattro anni fa, il ricordo di una certa Bosa d’altri tempi ha ripreso corpo nei ricordi di chi ha vissuto quegli anni. Anni in cui da queste parti la dieta Mediterranea, per molti ingredienti rimasta immutata anche oggi (basti pensare a prodotti della terra dal gusto unico come gli agrumi, i carciofi, le olive, anche i più semplici ortaggi come “sos nappos”, le rape), era arricchito da un ingrediente oggi diventato per pochi: l’aragosta.

Un piatto diventato prelibatezza per palati fini e portafogli forti, ma fino agli anni ‘50 alimento base sulla tavola di tante famiglie, non solo di pescatori, e cibo alla portata di tutti. Soprattutto dei meno abbienti, considerato che la carne era appannaggio dei ricchi, a parte qualche parentesi di festa che accomunava tutti.

Storia lunga quella dell’aragosta a Bosa, tanto che «Quando a Parigi scoppiava la rivoluzione c’era una cittadina, nella costa nord-occidentale della Sardegna adagiata sulle rive del fiume Temo, dove la regina Maria Antonietta avrebbe potuto pronunciare una frase del tipo: “Non hanno pane? Mangino aragosta!”, senza correre il rischio di perdere la testa» scrive, nell’incipit del pezzo pubblicato sul blog unalstrasestu.com, la ricercatrice Sandra Mereu, a fine gennaio del 2012. Citando fonti non orali, la cosa da queste parti è abbondantemente risaputa, ma un documento del 1789 conservato nell’archivio comunale di Bosa.

Un registro in cui erano annotati fra l’altro, si ricorda, anche i prezzi degli alimenti. Con l’aragosta più a buon mercato dell’anguilla e addirittura della salpa, pesce ancora oggi considerato non fra i più appetibili sul mercato, suo malgrado. L’aragosta rimarrà per secoli nella povera quanto gustosa cucina locale. Fino all’arrivo del boom economico che segue il dopoguerra, quando molte cose cambiano, non solo in tavola, e l’aragosta esce più o meno gradatamente dalla cucina casalinga, sostituita da altri e più vari alimenti, per entrare nel gotha dei quotati prodotti del mare da esportare. Fino agli anni settanta infatti le aragoste, rigorosamente vive, di fresco pescato o di allevamento (nelle casse in legno ospitate nella baia dell’isola Rossa a Bosa Marina), prendevano quotidianamente il volo in aereo, dirette ai più esclusivi ristorante del continente.

Carne bianca, compatta e dal gusto delicatissimo, quella del crostaceo pescato nelle acque di Bosa, che non ha tutt’ora rivali per qualità. Lessata e poi condita con un intingolo a base di quanto di commestibile è presente nella testa, così la semplice ma efficace storica ricetta “alla bosana” oppure con olio e aceto, l’aragosta rivela già tutta la sua essenza. Se poi, dicono i bene informati, la cottura è col fuoco vivo di canne, magari in riva al mare, l’esaltazione delle papille gustative raggiungerebbe livelli ineguagliabili.

Oggi, dopo decenni di “apprezzamento,” il crostaceo è tutelato da rigide norme che ne disciplinano pesca e vendita, e nelle acque della Sardegna centro occidentale esiste anche un’area di ripopolamento, voluta e approvata dai pescatori, considerato che il numero di esemplari col tempo si è radicalmente ridotto. Ma il ricordo dell’aragosta fumante sui piatti delle famiglie di Bosa, pane quotidiano per secoli nella dieta locale, è ancora vivo e vegeto. Un pezzo di storia, come per tante altre vicende oggi legate alla tradizione, che difficilmente sarà dimenticato.

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