La Nuova Sardegna

Il pensiero di Gramsci nei tempi che cambiano 

di Giacomo Mameli
Il pensiero di Gramsci nei tempi che cambiano 

Dagli Usa all’India, all’America Latina: un rinnovato interesse

16 giugno 2017
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A ottant’anni dalla morte, Antonio Gramsci (Ales 1891-Roma 1937) si conferma come uno dei pensatori politici più illuminati e più attuali. Convegni dal King’s College di Londra con studiosi anglosassoni al prossimo incontro in Brasile, all’Università di Campinas, ad agosto, con 170 relatori dei cinque continenti. A Cagliari, lo scorso aprile, per iniziativa del Comune e dell’Università, l’incontro “Un secolo di rivoluzioni, percorsi gramsciani nel mondo”. A Roma, promosso dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana, il seminario “Egemonia e modernità, il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura internazionale”. Perché questo crescente interesse? Ne parla Mauro Pala, 56 anni, docente di Letterature comparate a Cagliari e fra i principali conoscitori di Gramsci.

Dice Pala: «Rispetto a dieci anni fa il mondo è cambiato abbastanza, e non in meglio. C’è una rinnovata attenzione all’interno della galassia gramsciana per due termini in particolare che poi sono estremamente collegati: il primo è populismo, di cui Gramsci parla indirettamente, il secondo è rivoluzione passiva che, in pratica, inquadra il primo fenomeno”.

In che modo?

«Ne ragionano suoi autorevoli interpreti, in particolare l’argentino Ernesto Laclan, che ha collaborato con Louis Althusser. Ci si chiede quali rivoluzioni sono effettivamente innovative in termini di ripercussioni sociali e quali invece sono espedienti di facciata per mantenere un sostanziale status quo. Il termine rivoluzione passiva Gramsci lo mutua da Vincenzo Cuoco analizzando la rivoluzione napoletana fallita del 1799. È il precedente mondiale di un fenomeno che continua a ripetersi. Tutto questo si inserisce in un mutamento sostanziale della esegesi gramsciana. Fino a pochi anni fa ci si concentrava prevalentemente sul lavoro filologico anche alla luce delle acquisizioni legate agli archivi sovietici. Ora il confronto con le letture di Gramsci fatte in altre parti del mondo si è fatto più serrato».

Soprattutto Oltralpe, al di là della Manica.

«“Direi di no. Occorre sfatare il mito secondo cui Gramsci in Italia è stato dimenticato. A livello accademico, dalla fine degli anni ’80 e fino a oggi, il lavoro di ricerca è stato tanto approfondito quanto meticoloso ad opera di studiosi che vanno citati: Giorgio Baratta e Beppe Vacca, coordinati dal sassarese Gianni Francioni, che è uno dei responsabili dell’edizione nazionale degli scritti gramsciani. Edizione che, inaugurata nel 2007, andrà avanti ancora per decenni e comprende tutta la corrispodenza, comprese le singole lettere indirizzate allo stesso Gramsci».

Che cosa scaturisce da queste nuove letture?

«È emerso, per esempio, che un lemma come traduzione era sfuggito a Valentino Gerratani curatore della prima edizione critica del 1975 per Einaudi. Con traduzione e con la possibilità di tradurre, ovvero comparare, due condizioni politiche in tempi e luoghi diversi, Gramsci stabilisce la possibilità di fare politica attiva».

Politica attiva: che cosa vuol dire in concreto?

«Dal secondo dopoguerra assistiamo a un progressivo annichilimento del soggetto e della sua relativa potenzialità politica. Che peso ha oggi il cittadino-elettore? Pensatori come Foucault, Lacan, lo stesso Nietzsche riletto da Foucault, approdano per vie diverse a una sostanziale inanità del soggetto. Poiché il pensiero strutturalista e postrutturalista ha avuto un notevole seguito nella teoria degli ultimi trent’anni, è toccato a pensatori formatisi in Occidente ma di origine extraeuropea recuperare quella che oggi è nota coma Agency: cito Edward Said palestinese-americano, l’argentino Juan Carlos Portantiero (ha scritto “Los usos de Gramsci”), José Aricò e Dora Kanoussi la più importante studiosa messicana vivente di Gramsci».

Sono studiosi che giudicano l’Occidente come una terra immobile, di sostanziale status quo.

«È così. Loro operano o operavano in contesti politico-sociali, per dirla in termini gramsciani, di guerra di movimento, ritengono che gli assetti politici possono cambiare e vedono l’Occidente parzialmente ingessato. Ci sono movimenti che si aggregano in tempi brevi – pensiamo al fenomeno Occupy o alle varie primavere arabe – e ripropongono un paradigma movimentista che per molti versi attualizza la strategia che Gramsci ipotizzava. Lui analizzava una particolare contingenza storica ma pensava che occorresse agire con una conoscenza locale mai disgiunta da un contesto globale. A ciò si aggancia l’eredità del pensiero post-coloniale. Gramsci in questi ultimi anni è stato avvicinato spesso al rivoluzionario terzomondista algerino Frantz Fanon, ma anche a Gandhi e a Martin Luther King: appropriazione basata su una affinità, nella diagnosi, e anche nell’enfasi che Gramsci pone nella organizzazione dei gruppi».

Delle classi sociali?

«Nient’affatto. Nel tardo Gramsci c’è un superamento del concetto di classe. Della classe resta un’ideologia legata solo a una certa classe sociale. Ma quando parla di subalterni vede con occhio profetico, con grande anticipo, la polverizzazione, direi l’elemento liquido della società alla Zygmunt Bauman. Precursore, è come se un secolo fa avesse radiografato la società del precariato».

Ci sono movimenti contemporanei che vorrebbero intestarsi questo Gramsci.

«Se ne è discusso molto. Si è scritto del Gramsci usato, per esempio, da Podemos o dai movimenti egiziani. Le conclussioni sono inquietanti. Si comincia a parlare di una dominazione del consenso. Mi spiego: agli Stati viene affidato, direi appaltato, l’ordine pubblico e così quel consenso che Gramsci riteneveva essenziale al mantenimento e alla legittimizzazione del potere, progressivamente scompare. Oggi abbiamo nuove forme autoritarie dettate da un potere economico che si è man mano svincolato dall’egemonia degli Stati, che nulla possono contro le grandi concentrazioni dei capitali già dagli anni ’70. Wall Street, le borse di Tokyo o di Pechino, ma anche quelle di Francoforte e di Parigi, contano quanto il singolo cittadino elettore, quanto il soggetto? Gli Stati governano l’economia o sono manovrati più o meno direttamente dai finanzieri? Temi anticipati da Gramsci».



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