La Nuova Sardegna

Gianni Clerici, memorie di uno scriba innamorato della vita

di Roberto Petretto
Gianni Clerici
Gianni Clerici

Le grandi estati in Costa Smeralda «Ho percorso la Sardegna da sud a nord». «Sono un tennista fallito e ho sempre scritto di gente più famosa di me»

20 maggio 2017
5 MINUTI DI LETTURA





Ha visitato il giardino di Hermann Hesse insieme al padrone di casa, ha bevuto allo Txoko di Pamplona, nei giorni dell’encierro, a fianco a Hemingway, si è preso i rimbrotti di Mario Soldati, è stato compagno di tavola e di scrivania di Gianni Brera. Ha visto in azione i migliori giocatori della storia del tennis. Gianni Clerici per tutti è “Lo scriba”. Uno scrittore prestato al giornalismo sportivo che a 87 anni dalle pagine di Repubblica continua a essere un esempio per le nuove generazioni di aspiranti aedi delle gesta di pedatori, pugilatori o comunque epici eroi dei campi di gioco.

Clerici si schermisce se lo si definisce scrittore, ma sa che l’etichetta di giornalista sportivo gli sta stretta. È da poco uscito in libreria il suo ultimo libro, il romanzo “Diario di un parroco del lago”, che lui stesso definisce autobiografico. Nel suo lavoro precedente, “Quello del tennis”, Clerici si era invece raccontato in una autobiografia. Storia di una vita incredibile, con tanti episodi che sembrano sceneggiati per un film.

Come quella volta che a Cagliari…

«Quella volta che a Cagliari, nel 1968, ho strappato uno striscione elettorale del Msi. Eravamo in Sardegna, insieme a Bud Collins del Boston Globe, per seguire un incontro di Coppa Davis tra Italia e Ungheria. Rientravamo dalla cena in un ristorante di pesce che ci era stato indicato da Brera perché ci andava sempre il famosissimo Gigi Riva, “Rombo di tuono”. Rientrando in albergo pervasi di lietezza e vermentino (citazione dal libro, ndr) Collins vide uno striscione del Movimento sociale e si stupì molto che ci fosse ancora un partito in Italia che si dichiarasse fascista. Rimboccandomi le maniche dissi che ci avrei pensato io. Mi arrampicai su uno dei pali e slegai lo striscione da una parte. Quindi mi arrampicai sull’altro palo, ma non ci fu verso di slacciare la corda. Ridiscesi e in quel momento passò l’amico tennista Sergio Tacchini in auto e chiese cosa stesse accadendo. Glielo spiegai, lui legò l’estremità dello striscione al paraurti della sua auto ingranò la marcia e completò l'opera».

Prevalse la sua formazione partigiana?

«Da bambino portavo i mitra ai partigiani dentro una borsa da tennis. Mio padre era nei Gap, Gruppi azione partigiani, che erano i partigiani di città. Ho avuto un ruolo attivo, avevo 14-15 anni. Se mi prendevano mi sparavano subito, ma per me era una sorta di gioco più grande di me. Quindi avevo fatto quella cosa lì».

Nel libro racconta anche la visita a un paese dove c'era un nuraghe. E di un artigiano che preparò dei pantaloni particolari sfoggiati poi a Wimbledon. Ricorda quale fosse quel paese? Forse Barumini?

«Non lo ricordo, sono perseguitato dall’ipotalamo che non funziona più. Se non viene irrorato bene di sangue, si perde la memoria, me lo ha detto il cardiologo».

Della Sardegna che ricordi ha?

«Un po’ legati al tennis, un po’ perché una volta, visto che mi incuriosiva, l’ho percorsa tutta, da Cagliari sino ai luoghi che stavano diventando i “luoghi dei ricchi”, la Costa Smeralda».

Qualche indicazione l’aveva forse ricevuta da Pietrangeli, che aveva buone frequentazioni in Costa ?

«Sì, è vero, Pietrangeli aveva buone frequentazioni. Poi stava lì il mio amico Gian Enrico Maggi che fu un tennista dignitoso, che batté in un giorno felice il numero 1 del mondo, Roy Emerson. Lui aveva una villa in Costa Smeralda. Così come la aveva un altro che continua a produrre delle magliette da tennis che si chiama Giordano Maioli. Quindi ho trascorso qualche tempo lì».

“Quello del Tennis” è un’autobiografia, che lei con modestia sottotitola: storia della mia vita e di uomini più noti di me. Ma sembra un romanzo.

«”Quello del tennis” è una sorta di biografia, ma è incompleta, perché ogni volta che vado a cena con qualche vecchio amico vengono fuori delle cose che io non ho messo in “Quello del tennis”. Perché l’ho scritto così, sulla base dei ricordi, senza diari a cui fare riferimento. Mi sono sempre vergognato un po’ di avere diari da vero scrittore, io sono un meticcio. In una intervista ho inventato il termine “Giornattore”. L’intervistatore mi ha chiesto se avessi mai fatto l’attore e gli ho detto: no, per fortuna. Il giornattore è un giornalista-scrittore. Purtroppo si viene considerati negativamente dai due sindacati».

Lei ha frequentato gente come Hesse, Hemingway, Soldati. Il 90 per cento di chi fa questa professione, personaggi di quella levatura li ha conosciuti solo attraverso i loro libri. Quando va bene...

«Forse erano momenti più facili, poi io avevo una certa attrattiva: ero un bel giovanotto, parlavo le lingue, giocavo a tennis. E il tennis, sebbene io sia un fallito come tennista, in fondo è utile perché chi gioca a tennis sta da solo e viene osservato dagli altri. Ha un qualcosa dell’attore, in qualche modo sta sul palcoscenico».

“Se non scriverai sarai infelicissimo, perché non avrai seguito il volere degli dèi”. Glielo disse Soldati. Lei si sente una persona felice? Ha fatto quello che voleva fare?

«Non ho mai trovato un altro mestiere. Sono figlio di un businessman, un uomo che lavorava nel mondo degli idrocarburi. Avrei potuto fare l’oilman e per un periodo l’ho anche fatto, ma non mi divertiva molto. Poi avrei potuto fare l'avvocato, ma non l’ho fatto perché non mi andava di difendere se non gli innocenti. Poi non ho fatto l’assistente dell’università di un professore con cui giocavo a tennis. Ho continuato a non fare delle cose che non mi piacevano».

“Diario di un parroco del lago”, il suo ultimo libro, è invece un vero romanzo.

«Sì, ma è molto autobiografico. Il parroco protagonista del libro sono molto io. È il romanzo più autobiografico che ho scritto perché mi sono immaginato con grande facilità nei panni di un parroco di luoghi che conosco benissimo e che non ero mai riuscito a descrivere per ragioni misteriose. Bisognerebbe chiedere a uno psichiatra: un bravo psichiatra ti spiega perché».

Le piace ancora scrivere di sport?

«Di sport non scrivo più, perché non lo conosco più, tennis a parte. Non sono un appassionato utente televisivo e quindi conosco a malapena il tennis. Ora andrò a Roma per gli Internazionali, poi al Roland Garros quindi a Wimbledon: un pochino mi aggiorno. Ma se dovessi vedere una partita di calcio, non so più chi sono i giocatori. L’ultimo giocatore che ho visto a Roma si chiamava Totti e aveva 18 anni. Ricordo di aver detto al mio amico Rino Tommasi: quel Totti lì mi sembra bravo. Poi è diventato Totti».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
Il dossier

Intimidazioni agli amministratori: nell’isola casi aumentati del 20 per cento

di Andrea Massidda
Le nostre iniziative