La Nuova Sardegna

Jerry Rothwell, il narratore «Il documentario è arte»

di Fabio Canessa

Il regista inglese protagonista di un seminario all’Accademia di Belle Arti Il rapporto tra la realtà e la sua forma cinematografica al centro dei suoi lavori

10 maggio 2017
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SASSARI. Grande esponente del documentario narrativo, Jerry Rothwell è stato ospite due giorni a Sassari per raccontare la sua esperienza all'interno di un seminario organizzato dall'Accademia di Belle Arti. Del regista inglese sono stati anche proiettati alcuni dei lavori più significativi come “Donor Unknown”, documentario su un donatore di sperma e i suoi numerosi figli, “Town of Runners”, sulle ragazze in un villaggio etiope che aspirano a essere campionesse di atletica, “How to Change the World” sui fondatori di Greenpeace che è stato premiato al Sundance Film Festival.

Rothwell, questo seminario è stato intitolato “La voglia di raccontare”. Lei perché ha scelto come mezzo il documentario?

«Mi interessa il rapporto che c'è tra realtà e la sua forma cinematografica. Il documentario rappresenta la congiunzione di questi due mondi e mi piace perché non è prevedibile. Per questo motivo mi considero spettatore delle storie che racconto tramite quella che è una sorta di danza tra la camera e la realtà».

La sua filmografia mostra documentari con soggetti molto diversi. C'è un filo rosso che in qualche modo unisce le storie raccontate?

«Cerco sempre di passare da una storia a un'altra completamente diversa, non ho alcun interesse a seguire un filone tematico. Qualcuno però mi ha suggerito che il comune denominatore del mio lavoro si trovi in elementi come la lealtà, lo spirito di solidarietà, il rapporto tra il gruppo e l'individuo»

Quando inserisce la camera dopo il lavoro di preparazione?

«Dipende dal tipo di film. In “How to Change the World” per esempio ho speso anni di ricerca, e soltanto negli ultimi diciotto mesi ho inserito la camera. Per “Town of Runners”, dove il materiale era da girare dal primo momento, sono andato subito con la camera e ho cominciato a riprendere».

Sul campo segue un metodo o la realtà è materia troppo viva per controllarla?

«Senza forzare la realtà, cerco in qualche modo di anticiparla. Ogni sera dopo le riprese prendo appunti non solo su quello realizzato durante la giornata, ma anche su quello che potrebbe servire in base a quanto raccolto e potrei filmare il giorno dopo. Immagino delle domande, come fossi uno spettatore, e tutto questo lavoro porta alla formazione di una struttura grezza che poi sarà modellata , sino al montaggio definitivo».

Nei casi di documentari costruiti partendo da materiale d'archivio, come “How to Change the World”, il lavoro cambia molto?

«In realtà no, in fondo è lo stesso. Quando fai un film con la storia che si sta sviluppando davanti a te, devi dargli forma come se considerassi le tue riprese del materiale d'archivio. E d'altra parte, quando utilizzo documentazione del passato cerco di farlo come se stessi sviluppando una storia nel presente».

Il suo documentario più recente è “Sour Grapes”, su una truffa legata al vino contraffatto, e lo ha diretto insieme a Reuben Atlas. Come avete condiviso il lavoro?

«La collaborazione è nata in modo casuale. Entrambi eravamo interessati alla storia, ci siamo conosciuti, trovati sullo stesso principio e pensato quindi di lavorare insieme. Un'esperienza interessante perché c'è stata anche una certa alternanza di ruoli. Naturalmente è stato possibile perché condividevamo lo spirito del documentario».

Ha detto di sentirsi in qualche modo spettatore dei suoi film. Da spettatore esterno, quali documentari segue con maggiore interesse?

«Ne guardo tanti. Mi piacciono i documentari investigativi di Errol Morris, ma seguo con attenzione anche quelli poco narrativi come, per fare un titolo, il bellissimo “Behemoth” del cinese Zhao Liang».

Qualche italiano che le piace?

«Anche io sono rimasto impressionato da «Fuocoammare» di Gianfranco Rosi. E al di fuori del genere documentario, mi piace molto il cinema di Sorrentino».

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