La Nuova Sardegna

«Parole e versi per aiutare il popolo siriano»

di Grazia Brundu

La giornalista Malak Sahioni Soufi, in Sardegna per un’iniziativa del Grecam, racconta la tragedia dei profughi

22 aprile 2017
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SASSARI. Non saranno le terzine e i versi liberi a disarmare gli eserciti, questo è sicuro. Però la poesia ogni tanto riesce ad accendere riflessioni e magari piazzare qualche domanda scomoda ai politici. Soprattutto quando si propone come un movimento spontaneo che attraversa stati e confini. Una specie di Internazionale Poetica, come quella alla base di tre antologie - “Un solo mare e la parola”, “Cento poeti per la pace” e “Confini di sale” - dedicate ai rifugiati di tutto il mondo, che, dopo essere state presentate nei giorni scorsi a Sassari, ieri e oggi sono arrivate a Cagliari (dalle 18 nella Biblioteca del Mediterraneo). E poi a Roma e Torino. L’iniziativa è promossa dall’Associazione Grecam, mentre le antologie sono il risultato della partecipazione del gruppo al festival letterario dell’Havana nel 2016. Due raccolgono autori sudamericani, mentre la terza mette insieme poeti di varie nazionalità che hanno risposto all’appello della giornalista, scrittrice ed editrice siriana Malak Sahioni Soufi. Lo racconta l’autrice, in questi giorni in Sardegna.

“Confini di sale” è dedicata ai profughi di tutto il mondo, e in particolare a quelli della Siria, il suo paese d’origine. Come nasce l’iniziativa?

«Nel 2016 ero al festival dell’Havana per presentare un’antologia collettiva. Mi diedero la parola per parlare della Siria ed è stato allora che ho fatto un appello ai poeti di tutto il mondo per tenere viva l’attenzione sui dieci milioni di profughi provocati dalla guerra. Hanno aderito dall’Europa, dalla Cina, dall’India, dalla Turchia e da tanti altri paesi: quasi cento poeti, alcuni purtroppo sono rimasti fuori per questioni di spazio. È un risultato importante, reso possibile anche grazie all’impegno del Grecam, dei suoi soci e del suo fondatore, Norberto».

L’idea dell’antologia risale a quando faceva l’interprete in Grecia per i rifugiati provenienti dalla Siria.

«Sono stati quattro mesi – da novembre 2015 a febbraio 2016 – che mi hanno lasciato una ferita profonda e una domanda pressante: cosa posso fare per queste persone? Ricordo uomini, donne, bambini senza più niente, seminudi nel gelo invernale, che dopo essere stati in balia dei mercanti di vite umane, stipati a decine su barche minuscole, dovevano anche subire i modi bruschi della polizia greca. Io mi lasciavo prendere dall’emotività, tanto che spesso mi sono sentita dire dai responsabili all’accoglienza che non ero adatta a fare l’interprete e avrei dovuto fare l’assistente sociale».

La prima volta che si allontanò dal suo paese aveva solo diciassette anni. Cosa la spinse a partire?

«Credo di essere stata la prima ragazza araba ad andarsene senza il permesso dei sui genitori. Ho pagato una signora perché dicesse che era mia madre e mi facesse ottenere il passaporto. Volevo dimostrare a mio padre che, pur non essendo un maschio, ero in grado di lavorare e studiare. Così ho trovato lavoro in una fabbrica in Germania, col primo stipendio ho mandato un po’ di soldi a casa e due anni dopo sono tornata a vedere la mia famiglia. Poi ho fatto l’insegnante di arabo in Algeria. Ho vissuto in Libano, in Spagna. A Londra ho iniziato a lavorare come giornalista e non ho mai smesso di seguire le vicende della mia patria».

Crede davvero che le poesie, possano fare qualcosa?

«Spero possano ridestare dal torpore la comunità europea, la quale deve esigere dai governi nazionali che si fermi lo sterminio di un popolo innocente».

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