La Nuova Sardegna

La tenace lotta di Annetta per conquistare la libertà

Da oggi nella sale il nuovo film del regista sardo con Donatella Finocchiaro Ieri mattina l’anteprima a Cagliari con la sceneggiattrice Antonia Iaccarino

20 aprile 2017
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CAGLIARI. Si era innamorato di “Mal di pietre” Enrico Pau, pensava davvero, insieme alla sceneggiatrice Antonia Iaccarino, che sarebbe stato il prossimo film, e quando la possibilità sfumò venne a consolarlo l’idea dell’Accabadora. Spesso le storie di come nascono i film, le coincidenze che si creano nelle occasioni di produzione, nella scelta dei collaboratori e dei personaggi sono interessanti e significative quanto lo stesso film. Così come le motivazioni profonde del regista, il suo amore per Cagliari e la memoria della città e delle sue ferite, e insieme per un passato ancestrale e leggendario del mondo rurale sardo, e l’idea di usare, di mettere nel cinema, «tutto quello che mi appartiene», per comporre un paesaggio affettivo che è sfondo e motore del racconto filmico.

Da oggi nelle sale con la distribuzione di Koch Media, “L’Accabadora” è stato presentato ieri al cinema Odissea dal regista visibilmente emozionato (anche se il film ha già girato in numerosi festival e con buoni riscontri), dal produttore Francesco Pamphili per Film Kairos, da Jane Doolan per Mammoth Films, coproduttore irlandese e da uno dei protagonisti, l’attore irlandese Barry Ward, noto per Jimmy’s Hall di Ken Loach. Entrambi hanno sottolineato una similitudine in certe tradizioni delle pur lontane isole.

Allontanandosi dall’aura leggendaria di una figura mai confermata storicamente nella sua esistenza Pau e Iaccarino ne fanno un personaggio femminile di grande potenza splendidamente incarnato da Donatella Finocchiaro. La storia di Annetta è infatti soprattutto quella di una donna condannata a rinunciare alla sua vita per il ruolo che le è stato affidato e imposto, in questo caso davvero fuori dal comune, quello di “ultima madre”, colei che anticipa l’ultimo respiro dei malati terminali. Ma che, in quanto a condizione simbolica, non si discosta tanto dalle imposizioni sociali e culturali ben note a molte donne nel ruolo di mogli e madri. Il film ci fa incontrare Annetta, avvolta nello scenografico mantello creato da Antonio Marras, in arrivo nella Cagliari dei primi anni ’40, alla ricerca della nipote orfana Tecla, che non ha voluto prender con sé per non condannarla a ripetere la sua storia, e che, fuggita dalle assolate campagne e si trova in una città sotto i bombardamenti. E qui Cagliari si offre allo sguardo dello spettatore fra rovine, palazzi e monumenti, rifugi e ospedali precari che accolgono, come in tutte le guerre, le vittime civili. Da quelle bombe la città si risolleverà aprendosi alla modernità.

Intanto tra i vicoli, nelle stanze della villa dove Annetta ha trovato posto come custode da una famiglia di sfollati, negli specchi che riflettono il suo volto, affiorano via via le immagini del suo percorso di accabadora – e sono incubi, fantasmi, presenze che l’accompagnano anche con benevolenza ma con un peso enorme – e insieme una nuova consapevolezza. Che, come dice lei stessa, dalla fossa in cui l’hanno gettata fin da bambina, costretta a ereditare il mestiere della madre, le fanno intravvedere il chiarore di una luce diversa. Diversa dai chiaroscuri fiamminghi degli interni cupi delle stanze dei moribondi, di case che rifuggono il sole, diversa anche dai bagliori delle bombe.

Due, in modo differente, gli incontri significativi. Il primo con Alba, personaggio affidato a Carolina Crescentini, che Pau ha mutuato da una delle sorelle Coroneo, figure reali della storia artistico-artigianale sarda. Il confronto tra ciò che si trovano costrette a fare le mani dell’una, e ciò che liberamente possono fare quelle dell’altra è rivelatorio. L’altro è con Albert, medico irlandese di madre sarda che cura i feriti e custodisce le preziose cere anatomiche di Clemente Susini. Osservando il complesso di muscoli, vasi ed organi si rivela il lavoro materico della scienza, e per il fatto che non si scorga traccia dell’anima, l’occuparsi dei corpi del medico non sarà meno pietoso e utile, così come è stato pietoso il mestiere di accabadora, seppure insostenibile per una persona sola. Da questa vicinanza nascerà uno scambio umano e affettivo, e la più grande rinuncia di Annetta, quella dell’amore, potrà essere riscattata. La vediamo seguire la storica e mesta processione di Sant’Efisio tra le macerie del ’43, inserita nel film nella versione originale girata da Marino Cao, cineamatore dell’epoca, e nel film girata dallo stesso Albert. Come se l’immagine simbolicamente filmata due volte, da Albert e da Pau, restituisse poeticamente al personaggio una realtà e una possibilità futura.

Tra le inquadrature finali resta impresso il panorama della città osservato da Annetta, figura non più reietta ma dolcemente inserita nel paesaggio affettivo del regista e, ormai, anche dello spettatore.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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