La Nuova Sardegna

“ Turandot” per ricordare Sciola

di Gabriele Balloi

Il Lirico ha riproposto l’allestimento del 2014 con le scenografie firmate dal maestro di San Sperate

19 marzo 2017
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CAGLIARI. Dalla Turandot “di” alla Turandot “per” Pinuccio Sciola. La stessa, in verità. Ma stavolta, purtroppo, senza l'artista sansperatino a presenziare ogni recita come nel 2014, quando assistette con febbrile entusiasmo a tutte le apparizioni della propria creatura. A quasi un anno dalla scomparsa, il Teatro Lirico infatti gli rende omaggio riportando in scena (fino all’11 aprile) l’incompiuto capolavoro di Giacomo Puccini. Con le originali, visionarie scenografie che per l’appunto a Sciola furono commissionate dal Lirico, con la regia di Pier Francesco Maestrini ripresa da Alessandra Panzavolta, le sapienti luci di Simon Corder e i raffinati costumi di Marco Nateri.

Cosicché venerdì, pochi giorni dopo il suo compleanno (avrebbe avuto 75 anni), il sipario della Stagione operistica si è nuovamente alzato sulla Pechino da lui reinventata. Vi ritroviamo l’idea di «scultura sonora» – con cui solitamente s’identifica l’arte di Sciola – trasferita e riprodotta in vario modo. Le imponenti mura della città, il trono dell’imperatore Altoum, la pedana su cui si muovono, salgono, scendono i personaggi, le teste dei prìncipi decapitati: tutto riecheggia l’aspetto di quegli affascinanti, “rocciosi” strumenti che sempre abitano il giardino sonoro a San Sperate. Viene in mente, oltretutto, un parallelismo: come Sciola traeva da un elemento così concreto, solido e pesante che è la pietra quello invece più intangibile, effimero e lieve che è il suono, ugualmente il principe protagonista, Calaf, vorrebbe trarre dal cuore duro come permafrost di Turandot quell’elemento, spesso altrettanto intangibile ed effimero, che è l'amore.

Ma di quanto effimero possa essere proprio il suono, ne ha saputo qualcosa la voce di Rudy Park, tenore che, non fosse stato male, avrebbe dovuto impersonare Calaf alla prima. Al suo posto Amadi Lagha (del secondo cast), a sciorinare una vocalità di portentoso volume, sovrasta coro e orchestra senza alcuna fatica, davvero un cannone in zona medio-acuta, buono nel sostegno di fiato.

Anche Susanna Branchini è una Turandot tutto sommato accettabile, pur con le difficoltà che in questo ruolo, assai ostico, moltissime cantanti riscontrano, sconfinando in una drammaticità quasi strillata, esasperata, specialmente in quei temibili passaggi alla prima entrata del personaggio. Come tre anni fa, pure stavolta le performance più convincenti sono quelle del coro, istruito da Gaetano Mastroiaco, e della Liù i cui panni veste Olga Busuioc, agli antipodi però di quella eterea, tutta mezze voci che era stata Maria Katzarava: questa Liù è molto più carnale, terrena, dalla voce corposa e palpitante.

Sul podio, Alpesh Chauhan opta per una direzione sgargiante, rutilante, eppure mai coprendo le voci, e se si presta attenzione ci si accorge di un gusto particolare per le continue oscillazioni ritmico-agogiche della partitura.

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