La Nuova Sardegna

«Come racconto il mondo d’oggi nei documentari»

di Fabio Canessa
«Come racconto il mondo d’oggi nei documentari»

Fredrik Gertten all’Accademia d’arte di Sassari Dalla vita di Ibrahimovic all’impegno ecologista

09 febbraio 2017
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SASSARI. Nell’ambito dei workshop sul cinema documentario, l’Accademia di Belle Arti di Sassari propone in questi giorni una serie di incontri con il regista svedese Fredrik Gertten. Ieri si è discusso di “Bananas” e “Big Boys Gone Bananas”, due lavori incentrati sul conflitto fra la multinazionale Dole e i lavoratori delle piantagioni di banane in Nicaragua su presunti casi di sterilità causati dai pesticidi. Oggi seconda giornata con in programma a fine mattina la proiezione di “Bikes vs. Cars” e nel pomeriggio quella di “Becoming Zatlan” (uscito di recente nei cinema italiani con il titolo “Ibrahimovic. Diventare leggenda”) che racconta gli inizi della carriera del fuoriclasse svedese.

Gertten, lei ha lavorato a lungo come giornalista prima di trasformarsi in regista. Un’esperienza che influenza anche il suo modo di realizzare documentari?

«In fondo gli strumenti di base sono gli stessi. Instaurare un dialogo con le persone, un rapporto di fiducia, bussare a tutte le porti possibili per cercare informazioni. Certo ci sono differenze, per esempio nella velocità del lavoro. Il processo di realizzazione di un documentario è molto lungo, ci sono tanti aspetti da considerare».

E come sceglie i soggetti dei sui documentari?

«Si tratta di solito di tematiche seguite da molto tempo. L’osservazione, i viaggi spesso aggiungono degli elementi che portano a maturazione un progetto che ha origine da un lontano interesse».

Ma pensa che il cinema documentario possa incidere sulla realtà?

«Mi interessa prima di tutto raccontare storie. Se poi questa espressione artistica è utile come strumento di sensibilizzazione, a far riflettere, è qualcosa in più di cui sono contento».

Fa sicuramente riflettere, sulla mobilità urbana, il suo “Bikes vs. Cars”?

«Sono di Malmö dove la bici è utilizzata da tutti. Viaggiando in giro per il mondo mi sono però accorto che non è dappertutto così. Un po’ le cose stanno cambiando, ma il traffico continua a compromettere la vivibilità delle città. E i poteri legati alla diffusione delle auto a condizionare la pianificazione urbana».

La bici può essere un mezzo rivoluzionario?

«Lo è. A favore dell’ambiente e non solo. È un modo per lasciare spazio agli altri. Mi sono accorto che anche qua lo spazio occupato dalle auto è altissimo. E a chi protesta se ci sono le salite, ricordo che si può prendere la bici elettrica. Inoltre avete un bel clima. Niente scuse».

A proposito di bici, Ibrahimovic racconta che da ragazzino a Malmö qualcuna l’ha rubata. Ha voluto fare un documentario su di lui perché siete della stessa città?

«La prima motivazione è quella, io e mio fratello siamo tifosi del Malmö sin da piccoli. Abbiamo in realtà iniziato a girare alla fine degli anni Novanta per raccontare un momento preciso della società che dopo la retrocessione nella seconda divisione del campionato svedese cercava di rinascere. In quel momento si affaccia in prima squadra Ibrahimovic, un ragazzo talentuoso ma con una carattere non facile. Un buon personaggio da documentario. Abbiamo così iniziato a filmarlo, a seguirlo per due anni. Raccolto molto materiale che a distanza di tanto tempo è servito per questo film».

Credeva allora potesse diventare un campionissimo come poi si è dimostrato e ancora oggi fa vedere in campo?

«Certo si vedeva il potenziale, il talento fuori dal comune. Ma come andrà la carriera di un giocatore promettente, questo non si può mai sapere. A parte l’aspetto calcistico ci affascinava però il fatto che era un personaggio interessante già da giovanissimo, per il suo carattere particolare e il modo di fare».

Il film lo segue da vicino dal suo debutto nel Malmö e negli anni all’Ajax in Olanda. Perché avete deciso di concluderlo con l’arrivo alla Juventus senza raccontare il resto della sua carriera?

«Volevamo raccontare l’inizio della sua carriera, ed è una cosa che potevamo fare solo noi in questo modo grazie al materiale girato a Malmö tanti anni fa. Inoltre al momento del trasferimento in Italia Zlatan è cominciato a diventare anche un marchio, il documentario sarebbe diventato più superficiale se avessimo incluso gli anni successivi. In fondo non ci interessava tanto la sua storia calcistica, ma il punto di vista umano.

Si parla di un ragazzo che cresce in una situazione non facile, che può contare solo su stesso e credendo sempre nelle sue possibilità riesce ad affermarsi».

Avete provato a contattare Ibrahimovic per coinvolgerlo nel progetto?

«Il nostro è un documentario indipendente. Abbiamo fatto sapere del progetto a chi cura i suoi interessi, ma non è una collaborazione. Per noi era importante restare liberi, senza dover passare per la sua approvazione».

Le piacerebbe se tornasse a Malmö per chiudere la carriera dove è iniziata?

«Da tifoso sì, ma non credo questo succederà».

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