La Nuova Sardegna

l’antropologo

Lo studioso appassionato della società contadina

GIACOMO MAMELI. Nei primi giorni del ricovero, lo scorso 29 novembre, a metà pomeriggio, dalla stanza 24 al quarto piano dell’Oncologico di Cagliari, Giulio Angioni ammirava «i paesaggi sardi, che...

13 gennaio 2017
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GIACOMO MAMELI. Nei primi giorni del ricovero, lo scorso 29 novembre, a metà pomeriggio, dalla stanza 24 al quarto piano dell’Oncologico di Cagliari, Giulio Angioni ammirava «i paesaggi sardi, che sono una tela di Raffaello». Indicava, alla sua destra, «l'incanto della Sella del Diavolo che sembra un pezzo di Atlantide, luogo dell’anima anche per chi è nato fra i campi di grano della Marmilla e li ammira dopo aver conosciuto il mondo». Pochi passi lenti nel corridoio «a vedere la Sardegna», una vestaglia celeste copriva un’ampia fasciatura al petto, i cupoloni a matita di Barracca Manna, i monti di Burcei, l’antenna di Serpeddì.

Il tono di voce è flebile ma scandisce netto, è sintassi letteraria parlata. «So di essere in un luogo da ultimi giorni ma tornerò presto a casa. Porterò i sorrisi dell’infermiera, l’umanità dei medici, i volti sofferenti di chi è meno fortunato di me. Un ospedale è un luogo vero, lo è più di altri, è una casa del dolore e della speranza, qui si assopiscono i contrasti, si capisce il valore della vita, l'inutilità delle polemiche quotidiane. Vedo attorno a me un’organizzazione perfetta, quella che viene definita gestione delle risorse umane è difficile ma qui mi sembra più riuscita che altrove, si lavora senza sosta, scorgi anche i sorrisi. In ospedale un sorriso è terapia».

Tre giorni fa l’ultima telefonata. «Sono nel mio studio, a casa, sto meglio dopo l’ultima chemio, ho ripreso a leggere, ho ammirato un’intervista a Gillo Dorfles che compierà 107 anni il 12 aprile, che tempra. Ha detto che tra i suoi vini preferiti c’è il Cannonau, mi ha riempito d’orgoglio anche questa semplice frase, era come se avesse stampato l’etichetta del Cannonau di Fraus. Ho passeggiato alcune volte con Dorfles costeggiando l’Anfiteatro di Adriano sotto il colle di Buoncammino. Parlava della Sardegna scrigno d’arte, della necropoli di Tuvixeddu che dovrebbe inondare d’oro Cagliari, ma – sentenziava – è una città che non sa valorizzare le sue bellezze, né quelle sotto terra né quello sotto il cielo, a vista d'uomo».

Minuti di silenzio, lo sguardo verso i paesi del Campidano e del Parteolla. Poi Giulio Angioni aveva aggiunto di aver «riammirato», in ospedale, “Quelli dalla labbra bianche” di Francesco Masala, annunciando: «Appena finisco questa conversazione voglio rileggere Irène Némirovsky, che era stata arrestata nel 1942 dalla Guardia nazionale francese a causa delle sue origini ebree. Che intense le pagine della Suite Francese».

Il rientro a casa, dopo alcuni mesi di terapia intensiva, doveva diventare un ritorno alla vita, alla luce, agli studi più amati. Ed è proprio il piccolo studio nel quartiere “Villaggio”, all’ingresso di Settimo San Pietro per chi ci arriva da Cagliari, a custodire il sapere di un antropologo che – dopo i miti di Alberto Maria Cirese, Clara Gallini ed Enrica Delitala – ha creato una scuola tutta sarda e cagliaritana che ha saputo scavare nella società agricola. Tra i mille libri troneggia quello che Pietro Clemente giudica il capolavoro di Angioni: “Sa laurera e il lavoro contadino in Sardegna”. Lo aveva mostrato pochi mesi fa, in occasione dell'ultima intervista rilasciata per il documentario “Foghesu, i giorni del pane dolce”.

Sentendo le note di “Panis Angelicus, fit panis hominum” con Andrea Boccelli, Angioni aveva inserito i riti della panificazione in Sardegna nella storia del neolitico. Aveva esaltato «il letame che allieta i campi di grano», aveva citato Grazia Deledda che nel 1930 scriveva di una «infornatrice che non si faceva sedurre dal sonno», dei mille tipi di pane che sono «un fatto culturale totale in Sardegna», quello della sposa e del bambino, il «pane della festa più bello da vedere che da mangiare». Man mano che parlava emergeva lo studioso a tutto tondo. Ed ecco che, parlando del pane dolce o del moddizzosu, della carta da musica o della spianata, andava alle abitudini degli indiani dell’America lungo la costa del Pacifico, con una «vita globale basata sulla coltivazione dei cereali».

Una pausa e poi, in poche righe, una lezione di Antropologia culturale: «Noi nel Mediterraneo panifichiamo col grano e con l’orzo, così come in America lavorano il mais, in Asia il riso, in Africa il miglio: così si è formato l’homo edens, quello che mangia ciò che la terra offre dalla notte dei tempi». Godeva nel parlare della sua materia più amata. Godeva nel parlare il dialetto appreso fra i cortili e gli orti della Trexenta. Godeva nello scrivere. Nell’essere poeta. Godeva nel vedere intatti alcuni borghi contadini, soffriva davanti alle periferie degradate di Cagliari ma anche «l'orribile non finito edile dei nostri paesi». Voleva aggiornare alcuni libri, «tutto si può attualizzare lasciando intatto l'impianto iniziale di un'opera».

Nel libro “Assandìra” si legge: «Chi non muore si rivede». La Sardegna rivedrà Giulio Angioni adesso che se n’è andato al di là dei campi di Fraus. Come è successo per altri grandi sardi, si capirà quanto Giulio è stato grande.

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