La Nuova Sardegna

“Dopo il divorzio” il romanzo sparito di Grazia Deledda

di Alessandro Marongiu
“Dopo il divorzio” il romanzo sparito di Grazia Deledda

Torna in libreria un testo del 1904 diventato introvabile È il primo racconto dopo l’addio definitivo alla Sardegna

20 dicembre 2016
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“Dopo il divorzio”, uscito nel 1902 per Roux e Viarengo, ha sempre goduto di scarsissima attenzione da parte della critica: ed è, questo, uno dei numerosi torti ascrivibili ai tanti che nel tempo si sono occupati, capendone poco, di Grazia Deledda, autrice che solo di recente sta conoscendo un’adeguata riconsiderazione della sua produzione. Il cammino è ancora lungo, ma intanto c’è da apprezzare l’iniziativa di Studio Garamond, marchio delle Edizioni della Sera, che da pochi giorni “Dopo il divorzio” l’ha riportato in libreria, per la cura di Renato Marvaso e con un’introduzione di Aldo Maria Morace (270 pagine, 14,50 euro).

È di un’opera significativa sotto molti aspetti, a partire dal fatto che fu la prima a essere scritta dalla Deledda dopo aver sposato Palmiro Madesani e lasciato la Sardegna per trasferirsi a Roma. E ancora: nel 1920 fu ripresentata da Treves, ma con una diversa denominazione, quella con cui è molto più conosciuta, “Naufraghi in porto”. Cosa successe in quei diciotto anni, da far mutare titolo, incipit e perfino conclusione? A ben vedere, a contare in realtà fu ciò che non successe: la legge sul divorzio, che a cavallo tra l’ultima parte dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fu ripetutamente oggetto di dibattiti (quando non di scontri) parlamentari e tra opposte frange della società civile, non arrivò mai a un’approvazione.

Motore narrativo di “Dopo il divorzio”, testo comunque perfettamente calato nell’universo deleddiano, è giustappunto la situazione italiana in merito allo scioglimento del matrimonio: la vicenda di Costantino Ledda e della moglie Giovanna Era – l'uomo, accusato ingiustamente di omicidio, accetta il giudizio di colpevolezza perché davanti a una condanna all’ergastolo o a pene superiori ai venti anni, com’è il suo caso, il divorzio è consentito: la moglie potrà così risposarsi con un danaroso, seppur spregevole, proprietario terriero – riprende la prima proposta di legge sul divorzio avanzata direttamente dal governo, quella del 1902 firmata dal presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli e dal ministro della Giustizia Francesco Cocco-Ortu, che prevedeva quattro possibili cause per porre fine a un’unione, ovvero adulterio, abbandono volontario, sevizie e, appunto, condanna all’ergastolo o a pena detentiva superiore ai venti anni. La proposta non raccolse alcun favore: troppo blanda per i divorzisti, era ovviamente irricevibile per gli antidivorzisti, che riuscirono a depositare in Parlamento addirittura tre milioni e mezzo di firme per ostacolarla.

La storia dei coniugi Ledda, apparsa in quello stesso 1902, nella finzione romanzesca comincia appena dopo, nel 1904: la Deledda, probabilmente, auspicava che il tentativo di Zanardelli andasse a buon fine. Così non fu, e quando nel 1920 Treves decise di dare nuova vita al romanzo pensò, in accordo con la stessa Deledda, a dei rimaneggiamenti che lo disancorassero dalla specifica realtà della prima uscita: cambio del vecchio titolo contenente il termine “divorzio” con uno più neutro, eliminazione dell’epigrafe dal Vangelo di Luca e della dicitura iniziale “1904”, modifica del finale. Quasi un altro libro, insomma. Così come quasi un altro libro fu quello che vide la luce negli Usa nel 1905 per volontà dell’editore Henry Holt, il quale, sicuro che nel mercato d’Oltreoceano la drammaticità del finale deleddiano non avrebbe mai potuto fare breccia, chiese all’autrice, che accettò di redigerlo, un happy end.

Oggi, a oltre un secolo dalla sua comparsa, “Dopo il divorzio” ritorna in libreria nella forma in cui fu concepito, ospitato nella collana “Supernova” di Studio Garamond dedicata al recupero di testi italiani che conobbero successo di pubblico al tempo all’uscita per poi essere dimenticati. Un recupero, questo, che, nelle parole di Morace, giunge inatteso ma quanto mai opportuno, perché restituisce al lettore «sequenze narrative che sono da ascrivere alla migliore Deledda, soprattutto lì dove il reagente di una situazione eccezionale si coniuga a dimensioni archetipiche, con riflessi anche autobiografici (varcare il mare come cesura definitiva con la vita di sempre)».

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