La Nuova Sardegna

La Sassari di Tetti in un mondo senza più scampo

di Fabio Canessa
La Sassari di Tetti in un mondo senza più scampo

In libreria “Grande nudo”: un affresco corale Terzo volume di una trilogia legata dal vento

29 novembre 2016
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SASSARI. Grande nudo isolano. Si potrebbe definire così il lavoro portato avanti da Gianni Tetti con le sue storie, riprendendo il nome della famosa serie di dipinti di Tom Wesselmann “Great American Nude” dalla quale lo scrittore sassarese ha preso ispirazione per il titolo del suo nuovo romanzo, dal primo dicembre nelle librerie: “Grande nudo” (Neo Edizioni, 688 pagine, 17 euro). «Un titolo – spiega l’autore – che dal mio punto di vista dà l’idea di un panorama scevro dalle ipocrisie, dalle sovrastrutture che abbiamo. Volevo far vedere le cose come sono, come le vedo io». Dopo “I cani là fuori” e “Mette pioggia” il completamento di una trilogia definita del vento. «Ma voglio precisare – sottolinea Tetti – che non è obbligatorio leggere gli altri, sono tutti dei romanzi singoli. A sé stanti».

Cosa accomuna quindi “Grande nudo” ai due libri precedenti?

«C'è prima di tutto la tematica del lato oscuro, della parte più animale dell’essere umano. Poi c’è un legame che deriva da un mio divertimento, quello di portare avanti gli stessi personaggi secondari. Dei comprimari che mi porto dietro, che assumono anche ruoli diversi. E c’è la presenza del vento, che torna in tutti e tre libri. Secondo varie declinazioni. Dai qui trilogia del vento».

La prima differenza che balza agli occhi è esterna. La dimensione. Rispetto agli altri due volumi il numero di pagine è decisione maggiore.

«Avevo questa idea di portare avanti una narrazione piena, completa, da tempo. Ringrazio l’editore per avermi sostenuto e sono contento del risultato perché secondo me non c’è nulla di trascinato, di forzatamente lungo. Le parole non sono buttate lì, sono necessarie al portare avanti la storia. Come nella grande tradizione del romanzo. E da appassionato delle migliori serie tv contemporanee, ho pensato potesse essere anche come una serie. Con il colpo di scena a ogni finale delle varie parti, che spinge ad andare avanti».

Ma è stato trascinato dalla scrittura o il risultato rispecchia il soggetto dal quale era partito, la scaletta iniziale che si era dato?

«All’inizio mi faccio sempre un’idea, poi comincio a scrivere e in qualche modo la perdo. Per ritrovare poi che a fine libro è in fondo quella stessa iniziale. Ma migliorata. Perché andando avanti cominci a conoscere i personaggi sempre di più, ad affrontare le situazioni con loro e l’idea di partenza diventa più completa».

A proposito di personaggi, ce ne sono tanti. È difficile la gestione della coralità?

«Adoro le storie corali. A partire da quelle del cinema. Per esempio film come “Amores perros” e “Babel” di Iñárritu , “Magnolia” di Paul Thomas Anderson, molti lavori di Altman. In campo letterario penso ad autori come Carver e Kurt Vonnegut. Già da “I cani là fuori” che era un libro di racconti, ma dove c’era un legame tra l’uno e l’altro ho costruito una coralità, per proseguire con “Mette pioggia” che è totalmente corale, fino a questo nuovo romanzo. Non è semplice gestire la coralità, però mi trovo a mio agio. Da tempo ho iniziato un libro dove c’è solo un personaggio principale e in qualche modo sto trovando maggiori difficoltà».

Lavorando in questo modo, sull’idea di un romanzo corale, parte dai personaggi o dal mondo nel quale si muovono?

«È quasi una nascita parallela, però in realtà si parte dal personaggio. Il cuore della storia è sempre formato dai personaggi».

E come nascono i suoi personaggi?

«Prima di tutto dall’osservazione, sono un voyeur della vita. Passo molto tempo a guardare gli altri. Quando esco di casa porto sempre con me un taccuino e una penna per annotare eventuali situazioni che mi colpiscono. E poi sono spesso importanti gli spunti che arrivano dall’attualità, dalla cronaca. Colleziono anche tanti articoli di giornali per questo motivo».

Il loro mondo è la Sardegna. Ancora una volta per l’ambientazione ha scelto l’isola, Sassari in particolare. Per quale motivo?

«Perché è una madre, mi dà sicurezza, così riesco a muovermi bene. Se dovessi scrivere un romanzo di fantascienza ambientato dentro un’astronave gigante, quella astronave sarebbe Sassari. Se dovessi scrivere un romanzo western, con la gente a cavallo, comunque quel posto sarebbe Sassari. Ricordo, quando avevo forse diciotto anni, di aver seguito la presentazione di un libro di Marcello Fois. A una domanda sull’ambientazione aveva risposto: “Il primo consiglio che potrei dare a un aspirante scrittore è quello di guardare le cose che ha di fronte”. Penso sia molto più onesto che io ambienti i miei romanzi qui. Perché è una città che conosco, dove mi sento sicuro, che adoro e posso anche violentare tranquillamente. Poi ovviamente credo la storia sia per tutti, non solo per lettori sardi. Parto dal particolare per arrivare all’universale».

Con una scrittura molto asciutta. Com’è arrivato a utilizzare questo stile?

«Mi piacciono gli scrittori che scrivono semplice. E questo non vuol dire facile. La semplicità è una cosa difficile da raggiungere. Sono quindi andato alla ricerca di questa asciuttezza estrema, ancor più evidente in “Mette pioggia” mentre qua il periodo si è un po’ aperto. Per dare alla lettura un senso velocità. Penso che il lettore in questo modo possa andare avanti più rapido».

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