La Nuova Sardegna

Da Pau al Giappone Lungo le strade dell’ossidiana

di Daniela Paba
Da Pau al Giappone Lungo le strade dell’ossidiana

Dal paese della Marmilla fino al museo di Nagano Studiosi a confronto sul vetro nero che unì le culture

26 ottobre 2016
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PAU. Come la seta, la via dell'Ossidiana unisce Mediterraneo e lontano Oriente. Sebbene più antica di quella seguita da Marco Polo nel Medioevo, la rotta del vetro neolitico riunisce oggi Sardegna e Giappone, il piccolo museo di Pau, alle pendici del Monte Arci, e il C.O.L.S. (Center for Obsidian and Lithic Studies) sperduto sulle Alpi giapponesi nella “prefettura” di Nagano. E siccome tra il museo giapponese, diretta emanazione dell'Università di Tokyo, e il museo civico di Pau, diretto da Carlo Luglié, docente di Preistoria e protostoria della Sardegna all’università di Cagliari, esiste già un gemellaggio che coinvolge studi e scambi, parte domani per il Giappone un gruppo di escursionisti del Cai che il 4 novembre visiterà il museo dell’Ossidiana giapponese per incentivare scambi e conoscenze tra isole situate agli antipodi del globo e valorizzare così il raro vetro vulcanico.

Della comitiva fanno parte anche Giulia Balzano, archeologa e responsabile dei servizi educativi del museo di Pau e Nicola Mocci, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’università di Sassari; ad accogliere la delegazione sarda sarà Takenaka Toru, professore di Storia dell’Europa presso l’università di Osaka, quindi Yoshiro Abe archeologo e direttore del C.O.L.S. «L’idea di questo viaggio “From Sardinia to Japan: on the trail to Obsidian/Dalla Sardegna al Giappone: in viaggio sul filo dell’Ossidiana” è quella di capire come nel museo giapponese interpretano l’ossidiana e rapporti col territorio. Capita infatti che in centri piccoli un luogo prezioso come il nostro museo riesca a svolgere un ottimo lavoro dal punto di vista didattico e divulgativo ma nel territorio subisca una sorta di invisibilità del bene, l’ossidiana è infatti una risorsa talmente presente che crea una sorta di saturazione».

Come il suo corrispettivo giapponese, il museo di Pau ha due anime, una geologica, dove si racconta che il monte Arci è stato uno dei quattro vulcani del Mediterraneo, e una archeologica dove si racconta lo sfruttamento dell’ossidiana durante tutto il Neolitico. Già prima del 6000 a.C. è provato lo sfruttamento del giacimento che continua nel Neolitico medio, quando l’ossidiana sarda ha cominciato a viaggiare lungo le rotte del Tirreno nel 4500, fino al Nuragico.

«L’Ossidiana rappresenta per i sardi del neolitico – spiega ancora Giulia Balzano – una preziosa materia di commercio tra comunità diverse, ma testimonia anche lo scambio di competenze tecnologiche e culturali. I nuclei di Ossidiana venivano infatti raccolti sul monte e lavorati con grande abilità e precisione. Ma l’ossidiana destinata a prendere il mare partiva dall’isola sotto forma di semilavorato perché questo garantiva una maggiore leggerezza e resistenza agli urti, essendo il vetro vulcanico molto fragile e tagliente».

Il Monte Arci era dunque nel Neolitico un grande massiccio vulcanico che da una parte guardava al Sinis, dall’altra alla Giara di Gesturi: da qui il raggio di azione dei commerci dell’ossidiana sarda portano, attraverso la Corsica, in Liguria, Provenza e Catalogna.

Il materiale era abbondante e di ottima qualità, non necessitava di miniere né di cave, perché i nuclei di vetro si potevano raccogliere sulle pendici del monte e spesso rotolavano a valle, dove sorgevano i villaggi neolitici che ospitavano le officine di scheggiatura del materiale. Nei sentieri che attraversiamo anche oggi, come quello di Sennixeddu, si cammina sulle schegge che sono lo scarto di lavorazione dei nostri progenitori, il risultato di uno sfruttamento durato più di 3000 anni consecutivi.

Il vetro nero del Neolitico, contrariamente al senso comune, era utilizzato per costruire strumenti di lavoro, frecce per la caccia, coltelli per tagliare e falcetti per mietere e lame per conciare le pelli, non armi da guerra. La rivoluzione del Neolitico è quella che consente agli uomini di dedicarsi all’agricoltura e all’allevamento, di lavorare la terracotta in modo sistematico.

Chi possedeva oggetti di vetro nero dimostrava di aver viaggiato o di essere in contatto con popoli lontani. Oggi che, insieme al museo, intorno a Pau è nato il Parco dell’Ossidiana, si cercano le strade per promuovere la Marmilla, un territorio che unisce ventuno comuni – tra cui Baradili con meno di cento anime – ma non conta 20.000 abitanti ed è per questo al centro di un piano strategico nazionale per contrastare lo spopolamento. L’Ossidiana in questo senso può svolgere un ruolo da protagonista, perché la sua narrazione consente anche di ragionare sul concetto di “scarto” racconta ancora Giulia Balzano: «Si indaga infatti non la perfezione dell’oggetto finito, ma il processo di lavorazione, materiale di scambio e collettore di comunità. In questo i bambini vengono al museo e partecipano alla scoperta della via dell’ossidiana hanno idee ben precise: sono scarti insieme a loro, i vecchi, gli ammalati, agli immigrati».

Così nel museo e nel bosco non si parla solo di geologia e archeologia, ma del presente e del futuro della nostra isola.

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