La Nuova Sardegna

«Documentari: la rivoluzione del cinema»

di Sante Maurizi
«Documentari: la rivoluzione del cinema»

Intervista con Irene Dionisio, la giovane regista rivelazione a Venezia con “Le ultime cose” che sarà presentato domani

15 ottobre 2016
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SASSARI. Un anziano pensionato che non arriva a fine mese. Una trans che per sopravvivere è costretta a impegnare la pelliccia. Un giovane perito che in un banco dei pegni assegna un prezzo a ciò che le vittime della “spirale del debito” non possono più permettersi.

Sono alcuni dei personaggi del film “Le ultime cose”, unico italiano alla Settimana della Critica della recente Mostra di Venezia, che la regista Irene Dionisio presenterà domani sera al termine della premiazione del Carbonia Film Festival. Dionisio ha trent'anni, dopo la laurea in filosofia ha frequentato master in documentarismo diretti da Daniele Segre, Marco Bellocchio e Alina Marazzi.

“Le ultime cose” è il suo primo lungometraggio a soggetto: storie che si intrecciano al Banco dei Pegni di Torino, l’ultimo approdo degli oggetti e della speranza dei loro proprietari. Luogo che credevamo relegato alla misera Italia del dopoguerra e che invece ci è drammaticamente contemporaneo.

Irene Dionisio ha girato alcuni documentari (“Sponde: nel sicuro sole del nord”, premio Solinas 2012, che verrà proiettato stamane per le scuole di Carbonia) nei quali ha già mostrato attenzione a personaggi e luoghi ai margini: le macerie urbane e sociali della città-fabbrica torinese, le spiagge tunisine e siciliane dove approdano corpi senza vita, prostitute, gay impegnati nell’associazionismo, l’inedita esistenza di chi soffre di allucinazioni uditive.

Qual è stato il percorso che ha formato questa tua sensibilità?

«All’università mi sono appassionata ai filosofi e ai temi propri della scuola di Francoforte e dei suoi epigoni. La mia tesi riguardava la filosofia della storia e il capitalismo, e sicuramente ho trasferito quel tipo di interesse su un altro piano. Non volevo fare un percorso accademico. Ho lavorato in una casa di produzione, ho frequentato corsi e laboratori di cinema, e avuto la fortuna di poter contare su amici che già facevano documentari. Torino è al proposito una realtà variegata e forte, c’è una solida tradizione di operatori e istituzioni che si occupano di “cinema della realtà”».

Come sei arrivata a girare il primo lungometraggio a soggetto?

«Il produttore Carlo Cresto-Dina vide uno dei miei documentari e mi chiese se volevo girare un film di finzione. Allora gli risposi di no, ma poi si è innescato un percorso che mi ha portato a cercarlo per dirgli «eccomi, sono pronta». Avevo iniziato a fare un lavoro di osservazione sul Banco dei Pegni di Torino per un documentario, che però per motivi soprattutto legati alla privacy non si è potuto fare.

Cresto-Dina con la sua società “Tempesta” ha prodotto alcuni dei film italiani più importanti di questi anni: di autori che amo molto, come Alice Rohrwacher, Gianfranco Pannone e Leonardo di Costanzo. Carlo mi ha “accolta”, con il suo appoggio è iniziata la prima fase di rielaborazione di quella sceneggiatura, e il lavoro è iniziato».

Perdona la semplificazione: come ti sei trovata nei panni della regista-regista?

«Ho imparato moltissimo. È come fare il pilota di Formula Uno: devi possedere una grande resistenza fisica e psichica. Quello del regista è un mestiere destabilizzante. Non è tanto il lavoro sul set a essere difficile, ma la gestione delle dinamiche, quelli che chiamo gli psicologismi, che iniziano sul set e terminano fra le righe che scrivono i critici. L’intelligenza emotiva di un documentarista sta nel rapporto con gli esseri umani che ha di fronte: devi essere ricettivo, cogliere ed entrare in sintonia con l’anima dell’altro. In un film di finzione devi essere il coordinatore di anime artistiche diverse».

Hai scelto di girare con attori professionisti e no. Come è andata?

«Volevo attori professionisti ma che non avessero facce da film di cassetta. Roberto De Francesco e Alfonso Santagata sono grandissimi attori di questo tipo. Per i non professionisti il lavoro di selezione è stato lungo ma avvincente. Per fortuna ho avuto una compagna di viaggio eccezionale come Tatiana Lepore, che ha gestito il casting e “allenato” gli interpreti. Con lei siamo credo riuscite a creare omogeneità fra i due gruppi».

Hai girato “Le ultime cose” in modo ellittico, narrando per allusioni: è stato necessario per questo film, oppure pensi che questo sia il tuo stile?

«La mia montatrice dice che i miei non sono film “urlati”. È vero, racconto per allusioni, evito la “confezione” predicata dai manuali di cinema.

So che questo è un film che arriva potentemente ad alcuni e ad altri no, e che quello che ho adottato era senz’altro il modo migliore per raccontare quella storia. Ma credo anche che bisogna essere fedeli a se stessi. L’esperienza veneziana è stata molto istruttiva al riguardo. Mi sono resa conto solo un paio di giorni prima della proiezione che il film non l’avevo fatto solo per me. Mi sono spaventata, è stato un po’ un rito di passaggio».

Si sono appena placate le polemiche per la selezione di “Fuocoammare” a rappresentare l’Italia per gli Oscar. Che ne pensi?

«Sono contentissima: il documentario sta rivoluzionando il cinema italiano. È la libertà produttivo-creativa che sta avendo successo, è di questo che in italia si ha paura, appunto perché stanno andando all’aria codici e consuetudini. L’industria cinematografica è un pachiderma, il documentario costringe a farci domande sia a livello produttivo che distributivo.

Penso possa essere questa la strada per ristabilire con le opere e gli artisti un rapporto “amoroso” come quello che avevamo con gente come Dario Fo, Umberto Eco o Ettore Scola. Lo spero davvero».

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