La Nuova Sardegna

«La mia Sardegna sospesa sul crinale della modernità»

di ALESSANDRA PIGLIARU
«La mia Sardegna sospesa sul crinale della modernità»

L’antropologa e gli anni di lavoro nell’isola «Con l’Aga Khan l’inizio del cambiamento»

12 ottobre 2016
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di ALESSANDRA PIGLIARU

Clara Gallini, stella polare dell’antropologia italiana, allieva di Ernesto De Martino e docente all’Università di Cagliari fino al 1978 e poi a Napoli e a Roma, dove attualmente vive, ci accoglie nel suo appartamento, immerso in un «quartiere internazionale», come lei stessa dice, «si possono osservare anche così gli esiti della globalizzazione». Un pezzo consistente della storia del Novecento è disseminato tra le sue carte e gli oggetti conservati che raccontano dei viaggi e degli incontri di una donna che ha fatto del metodo antropologico dell’osservazione e della partecipazione un modo di stare al mondo. Dalla scatoletta di ceramica intarsiata da un pastore di Dorgali negli anni Cinquanta al quadro di Giovanni Canu che raffigura il fuoco di Sant’Antonio a Mamoiada nel 1962, si arriva alla Scala della vita, scultura pugliese in terracotta. «La donna che è in cima alla scala è all’apice della sua fecondità, sia riproduttiva che di saperi», segnala sorridente Gallini che ha scelto proprio quell’immagine come copertina del suo ultimo volume Incidenti di percorso (Nottetempo, pagine 288, euro 16,50), scritto in seguito alla scoperta della sua malattia, difficile e che tuttavia riesce a consegnare con imperdibile e luminosa intelligenza.

Rituali dell’àrgia e novenari dono e malocchio, apocalissi culturali e immaginario razzista, Gallini ha prodotto moltissimo. Da Il consumo del sacro (1971) a La fine del mondo (1977), La sonnambula meravigliosa (1983) e La ballerina variopinta (1988). Poi ancora Il miracolo e la sua prova (1998) ma anche Croce e delizia (2007) e altri ancora.

Quando hai pensato di scrivere della tua malattia?

«All’inizio ho sentito la necessità di descrivere ciò che mi stava capitando e infatti i primi due capitoli del libro trattano esclusivamente di questo. Ciò che ho poi aggiunto, immaginando un progetto più ampio, sono i ricordi e l’analisi delle relazioni sociali che ho avuto lungo il corso della mia vita. È importante il senso da dare a un percorso che genericamente pensiamo come lineare e senza inciampi e che invece, proprio per l’esistenza stessa, risulta incidentato ma in seconda battuta rispetto al senso».

E che senso dai al tuo percorso?

«Di complessità. Nel libro faccio pochi cenni al carattere di contraddizione; per me il nodo maggiore e mai risolto del tutto, o almeno portato avanti con fatica, è stato quello tra intelletto e corpo. Mentre il mio percorso si avviava da una volontà intellettuale, la strada che una donna della mia generazione intraprendeva doveva per forza fare i conti con una sessualità da reprimere proprio in funzione di quell’intelletto. Ci sono stati però dei momenti in cui avevo nitida la decisione; trasferirmi in Sardegna per lavorare con Ernesto De Martino è stato un momento di grande chiarezza non negoziabile».

È stato lui ad avvicinarsi a te durante una conferenza milanese nel 1959. Cosa ti disse?

«Quando lo incontrai avevo finito il mio perfezionamento in Storia delle religioni a Roma. De Martino mi disse che gli avevano parlato bene della mia ricerca e aggiunse che er. o una persona relativamente abbiente e se dunque avessi voluto mi sarei potuta trasferire in Sardegna per collaborare alla cattedra di Etnologia. Di suo avevo letto Il mondo magico e poi qualcosa sul lamento funebre e sul tarantismo, ma di tutti avevo capito ben poco. Intuivo però che lì dentro circolava una potente intelligenza. Per trasferirsi in quel momento sull’isola bisognava avere una famiglia alle spalle che potesse garantire sostegno anche se per me così non è stato perché, dopo aver vinto il concorso per l’insegnamento nei licei, nei primi quattro anni ho lavorato al “Siotto Pintor” di Cagliari. Da lì a poco comunque ho vinto il concorso all’Università come assistente. L’unico rammarico è stato la morte di De Martino nel 1965. Mi ha comunque potuto insegnare tutto e ancora ne sento forte l’eredità. Ho potuto apprezzare il suo modo di leggere la realtà, cioè partire dalla crisi e vedere come, iniziando dal piano religioso, si proponesse una risoluzione atta a sciogliere la crisi che tuttavia doveva essere iterata. Questo schema, questo piano mi ha aperto la lettura del mondo. Ogni critica della crisi si doveva accompagnare a un’altra: quella propria di se stessi, del proprio guardare».

Anni difficili i primi trascorsi in Sardegna ma pieni di fervore...

«Da un punto di vista accademico e culturale, non solo sotto il profilo strettamente antropologico, a cavallo tra i ’60 e i ’70, Cagliari era davvero una piccola Atene. Le più grandi intelligenze confluivano lì, luogo aperto alle collaborazioni e alla presenza massiccia di grandi menti di sinistra; un periodo storico che varrebbe maggiore approfondimento. In generale, appena giunta in Sardegna non è stato semplice per me e lavoravo quasi solo in città. Poi nel 1962 ho conosciuto Raffaello Marchi, devo a lui l’inizio della frequentazione di Nuoro e dell’entroterra sardo. Certo quello è stato un anno decisivo per tante cose, basta pensare all’acquisto della costa orientale gallurese da parte dell’Aga Khan che sarebbe diventata una sua proprietà, l’attuale Costa Smeralda. Era da lì che cominciava l’asservimento al capitalismo moderno. Insomma, ho conosciuto una Sardegna intermedia, legata alle proprie tradizioni e aperta alle incursioni esterne, nel bene e nel male».

“Intervista a Maria”, comparsa la prima volta nel 1981, ha avuto una straordinaria diffusione. Il progetto, prima di diventare un libro, ti era stato commissionato dalla terza rete della Rai nell’ambito della trasmissione radiofonica «Noi, voi, loro, donna»...

«Il colloquio è avvenuto tra il 2 e il 6 ottobre del 1979 a Tonara. Maria aveva 70 anni e mi era stata presentata da amici comuni. Volevo capire a fondo la trasformazione della famiglia e quindi provai a restare nel paese per un paio di settimane ma nessuna, oltre lei, mi concesse udienza. Ero forse percepita come l’estranea. Eppure con lei è stato uno scambio intenso e di reciproco affidamento, anche simbolico, tanto da desiderare il doppio nome come autrici del libro, il mio e il suo, che però l’editore non approvò. Nonostante Maria avesse concesso la sua voce per un programma nazionale, quando uscì il libro si rifiutò di parlarne in una sala di Tonara. Questo apre il problema di come l’appartenenza alla propria comunità ti renda più o meno vivibile il quotidiano».

Ogni tua ricerca unisce rigore scientifico e curiosità sociale. “Incidenti di percorso” ha un’ ironia di fondo consapevole e al lavoro.

«L'ironia è un modo di relazionarsi all’oggetto pensato e osservato, che non si può mai buttare del tutto fuori di sé ma ritorna indietro, entra a far parte dell’osservante. L'ironia viene proprio dal gioco tra il soggetto e l’oggetto. Non ha a che fare solo con il significato ma anche con il significante. Riferire il mondo in questo modo è stata un’altra grande lezione demartiniana, nel tempo diventata per me una qualità dell’esperienza».

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