La Nuova Sardegna

«Ho ritrovato mio padre grazie a questo romanzo»

di Alessandro Marongiu

“Sulla terra leggeri”, Walter Veltroni ieri a Sassari con il nuovo libro “Ciao” Un dialogo immaginario con il papà Vittorio scomparso quando era bambino

29 luglio 2016
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SASSARI. Nella narrativa italiana recente ci sono due esempi mirabili di opere che affrontano il tema del rapporto tra padre e figlio partendo dalla biografia dei loro autori: sono “Vita e morte di un ingegnere” di Edoardo Albinati e “Geologia di un padre” di Valerio Magrelli. Muove da identiche premesse “Ciao” di Walter Veltroni, il libro di cui l'ex sindaco di Roma ha parlato ieri al pubblico sassarese in uno degli appuntamenti più attesi della nona edizione del festival “Sulla terra leggeri”. La storia di Veltroni si distingue però da quella di Albinati e Magrelli per un punto fondamentale, ovvero la perdita del padre ad appena un anno di età: così, è solo attraverso le testimonianze di famigliari, amici e colleghi che, nel corso degli anni, il figlio ha potuto ricostruire la fisionomia di un genitore mai realmente conosciuto né “vissuto”, quel Vittorio che a cavallo della Seconda guerra mondiale fu pedina fondamentale prima della radio, e poi della nascente televisione italiana.

Il rapporto, spesso mancato o venuto meno, tra padri e figli è una costante della sua produzione letteraria fin dagli esordi di “Senza Patricio”, ma è solo con “Ciao” che lei è arrivato ad affrontare in maniera diretta la sua vicenda personale, quella che riguarda lei e suo padre Vittorio: ciò si deve esclusivamente al fatto che, come scrive nel libro, lei oggi ha un’età per cui potrebbe essere il padre di suo padre? C'era bisogno, insomma, che l'avanzare dell'età la mettesse davanti a problemi e interrogativi nuovi, che prima per ovvie ragioni non le si erano presentati, perché il dialogo con la figura di suo padre prendesse corpo?

«C’è un elemento di base: il fatto che io non avrei mai potuto scrivere questo libro finché ho avuto i ruoli e le responsabilità che mi è capitato di ricoprire nella vita. Avrebbe avuto un altro significato, un altro sapore, sarebbe stato letto in un altro modo. Adesso che, per mia scelta, non ho più questi incarichi, queste responsabilità, ho potuto scrivere il libro della vita, cioè il libro attorno al quale ho girato più volte, e ho voluto scriverlo nella forma di un dialogo immaginario con mio padre, nel palazzo, nella casa in cui lui abitava ed è morto, e dove io abito tutt’oggi. Portare a compimento questo lavoro è stato molto bello ma anche molto duro»

Nel libro, in maniera molto onesta, riflette sul suo aver cercato sempre, in politica, il confronto piuttosto che lo scontro, tenendosi al di qua della linea oltre la quale c’erano l’offesa personale e la violenza verbale, e conclude che forse il suo atteggiamento non sempre ha pagato in termini di risultati ottenuti. Partendo da qui per allargare il campo, ritiene che, alla luce dell'attuale situazione internazionale, quella del dialogo interculturale sia davvero l'unica risposta possibile a un terrorismo che, da questo punto di vista, è e sarà sempre sordo? È davvero sensato insistere su principi e democrazia mentre il numero delle vittime degli attentati in Europa e nel resto del mondo continua a crescere?

«Io penso che non ci sia altra via, se si vuole continuare a vivere nella libertà e nella democrazia, che il dialogo, anche con chi questo dialogo non lo vuole. Bisogna naturalmente evitare, impedire che la parte che rifiuta il dialogo passi alla violenza, ma io diffido di coloro i quali tendono, come sempre succede in queste situazioni sfruttando l’onda emotiva, a fare di tutta l'erba un fascio, assimilando ad esempio i terroristi che uccidono urlando “Allah Akbar” a tutti i musulmani. Temo che l’esito di questa confusione alla fine possa essere una guerra di civiltà, di religioni: se vogliamo evitare la guerra, quale che sia la sua natura, dobbiamo mantenere sempre aperta la capacità della cultura, della libertà e della democrazia di convincere che esse sono la forma migliore di convivenza umana».

Un tema centrale di “Ciao” è la memoria, quella privata tanto quanto quella pubblica. Incuriosisce sapere, nel corso della lettura, della sua passione per i luoghi abbandonati, siano essi fabbriche, aziende o perfino intere città (è il caso che lei cita, raro ma non unico, della giapponese Hashima): che cosa la affascina di questi luoghi?

«La sensazione di epico, il senso della storia che trasmettono. Questi luoghi portano sempre dentro di sé i segni di una presenza umana, un’impronta, ed è questo che, da un lato, mi affascina letterariamente ed emotivamente; dall'altro, il fatto che siano luoghi silenziosi, sottratti al rumore del nostro tempo, e ormai inesplorati».

Appena due giorni fa, il festival di cui è lei stato ospite ieri ha proiettato “Non essere cattivo” di Caligari, bellissimo e giustamente celebrato esempio di cinema italiano contemporaneo. Da grande appassionato qual è, le chiedo se di recente ha visto altri film italiani degni di nota.

«A me è piaciuto “Le confessioni”, il film di Roberto Andò. Mi è sembrato molto strutturato, colto, intelligente. In realtà, però, il film più bello che ho visto in questi ultimi tempi è cileno e si intitola “La memoria dell’acqua”. L’ha diretto Patricio Guzmán: un documentario straordinario, con un’altissima capacità di emozionare».

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