La Nuova Sardegna

«Il mio amato Componidori è come uno sceriffo del west»

di Grazia Brundu
«Il mio amato Componidori è come uno sceriffo del west»

Vinicio Capossela parla dell’eroe della Sartiglia al quale ha dedicato un brano Il cantautore domani si esibirà a Cagliari nell’unica data in Sardegna del suo tour

28 luglio 2016
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SASSARI. Finalmente dopo tredici anni il “Componidori” è pronto a tornare nell’isola dove è stato concepito. L’occasione è il concerto di Vinicio Capossela, domani a Cagliari (alle 21.30 al Sant’Elia) per l’unica data sarda di “Canzoni della Cupa”, uscito lo scorso maggio. Il brano dedicato alla Sartiglia è quasi un intruso tra ventotto pezzi che raccontano un’altra terra, l’Irpinia dei genitori del cantautore che martedì ha presentato a Sassari il suo romanzo “Il paese dei coppoloni” durante un incontro organizzato dal Governo Provvisorio e da Amerindia Cinema. Eppure, come dice lo stesso Vinicio Capossela, il pezzo ha già conquistato il pubblico.

Capossela, lei dal 2007 indossa spesso sul palco la maschera dei “Boes” di Ottana. L’eroe della Sartiglia, invece, quando l’ha conosciuto?

«A Cabras, nel 2003. Stavo iniziando a dare forma alle “Canzoni della Cupa” e sono entrato in rotta di collisione con questa figura, di cui mi aveva parlato una massaiedda addetta alla sua vestizione».

E come mai ha pensato di trasformarlo in un personaggio western, registrando la musica in Arizona con i Calexico?

«Perché il rito della Sartiglia è una specie di resa dei conti, il Componidori affronta la stella come si affronta un duello, con lo stocco al posto della pistola. E poi la stella ricorda quella dello sceriffo, l’eroe scelto dalla comunità. Proprio come il Componidori che, durante il Carnevale, viene innalzato al ruolo di semidio: lo si veste perché non deve toccare terra, gli si affida il raccolto, ma poi alla fine torna ad essere un uomo, si ubriaca, si rotola nella polvere e il ciclo vitale ricomincia da capo. Però, in realtà, ciò che mi interessa davvero di questa figura è la sua connessione con il mondo agreste».

Un mondo semi-mitico, quasi completamente scomparso, che lei racconta attraverso le leggende raccolte nel libro “Il paese dei coppoloni”. Ma ha ancora senso continuare a parlarne, oggi?

«Sì, perché attraverso la fantasia e la letteratura passa anche l’acquisizione di una cultura e, in un’ultima analisi, un’azione che incida sulla realtà».

Un po’ quello che lei sta cercando di fare con lo Sponz-Fest, che dirige da quattro anni in Alta Irpinia, e che tutte le estati riporta migliaia di persone in una regione dimenticata…

«L’edizione di due anni fa si intitolava “Mi sono sognato un treno”, per riportare l’attenzione sulle linee ferroviarie minori, in un mondo che privilegia soltanto gli investimenti sull’alta velocità. Quest’anno abbiamo ottenuto che almeno durante il festival, che inizia il 22 agosto, venga ripristinata ad uso turistico una parte della linea che collegava Rocchetta Ionica, in Puglia, alla provincia di Avellino. Sostanzialmente la linea che si prendeva per andare verso Foggia e da lì prendere i treni che andavano poi a Nord».

Lei canta e scrive di animali fantastici, che poi sono anche un modo per descrivere vizi e virtù degli esseri umani. Se dovesse identificarsi in uno di essi, quale sceglierebbe?

«Nel mio libro, “Il paese dei coppoloni”, il mio animale totemico è il tacchino perché è vanaglorioso, vorrebbe volare, apre la coda, ha un aspetto preistorico ma nessuna saggezza».

Chi la accompagnerà sul palco a Cagliari?

«Una band di dieci elementi: due suonatori di cupa-cupa dalla Basilicata, due mariachi, un coro maschile e femminile e un suonatore di strumenti medievali».

Ha ancora le chiavi di Ottana, ricevute nel 2007 dall’amministrazione comunale?

«Ce le ho ben salde e spero di tornarci presto, perché la maschera del Boe in tutti questi anni è diventata la faccia che mi riveste quando voglio parlare della mia natura arcaica».

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